Dal 1992, a seguito del clima anti-partitico che si scatenò con tangentopoli, i partiti italiani hanno sistematicamente fatto ricorso all’arma del referendum e della riforma elettorale per ridare credibilità a se stessi e stabilità al sistema (essendo le due cose ovviamente correlate). Pensarono di risolvere con la tecnica elettorale problemi che erano strutturali e di sostanza, che riguardavano il rapporto di sfiducia cronico tra loro e gli elettori. La fine dei partiti di massa non è stata accompagnata da una riformulazione dei partiti che fosse capace da un lato di organizzare efficacemente la selezione della classe politica e dall’altro di ristabilire su basi laiche o non fideistiche il rapporto di fiducia con l’elettorato.In diciotto anni nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto: la legge elettorale che porta il nome di Roberto Calderoli ne è una prova straordinaria. Confezionata per dare una maggioranza granitica alla coalizione vincente e per sfoltire il numero delle liste e dei partiti, ha fallito su entrambi i fronti mentre ha reso cronico l’auto-referenzialismo dei partiti. Minore stabilità e più oligarchia: questo è l’esito di una legge che il suo stesso estensore giudicò pessima.
Il diritto di voto nelle democrazie moderne contiene due diritti, non uno: non solo quello di eleggere un governo, ma anche quello di mandare in parlamento rappresentanti con i quali i cittadini credono di avere una corrispondenza di idee o interessi. La democrazia moderna non è semplicemente un sistema di selezione elettorale della classe dirigente, perché attraverso le elezioni si stabilisce anche una relazione tra partecipazione e rappresentanza, tra società e istituzioni.
Questo comporta che il diritto dei cittadini di godere di un’eguale opportunità di determinare la volontà politica con il loro voto dovrebbe essere accompagnato da quello di avere un’opportunità non aleatoria di formarsi e far sentire le proprie idee e infine controllare chi opera nelle istituzioni. I sistemi elettorali dovrebbero essere pensati secondo questi due grandi criteri. L’attuale sistema elettorale contraddice entrambi. Certamente contraddice il principio di maggioranza. Scriveva Giovanni Sartori pochi giorni fa sul Corriere della Sera che dietro l’apparente logica maggioritaria l’attuale legge elettorale attua l’intento truffaldino di trasformare una minoranza elettorale in una maggioranza di governo, visto che per esempio “se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi”. Chi volle questa legge usò l’argomento della governabilità e del superamento della frantumazione partitica nel Parlamento: come vediamo in questi giorni, la coalizione che ha goduto del premio di maggioranza è tutto fuorché stabile mentre il numero dei partiti in Parlamento resta alto comunque. In sostanza, la legge non si è rivelata soddisfacente nel garantire il primo dei due diritti contenuti nel diritto di voto: quello di formare una maggioranza. Che cosa dire dell’altro diritto, quello dei cittadini di essere rappresentati?

Una critica costante a questa legge è di mortificare “la soggettività degli eletti”: dovendo costruire coalizioni pre-elettorali, la soggettività del candidato e l’opinione che del candidato hanno i cittadini passano in secondo piano. Una prova della irrilevanza del merito del candidato sta nelle liste bloccate, per cui l’elettore si limita a votare solo per delle liste di candidati, senza la possibilità di indicare preferenze. L’elezione dei parlamentari dipende completamente dalle scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti. Con l’aggiunta, non irrilevante, che a guadagnarci non sono i partiti – se per partiti si intende l’intera struttura di appartenza politica, centrale e periferica, di iscritti e attivisti – ma sono invece le segreterie. Le liste bloccate sono funzionali alle segreterie o, dove il personalismo è centrale, al capo.

Come si legge nel testo dell’appello promosso da Giustizia e Libertá e Valigia Blu (un appello che ha ottenuto più di quindicimila firme), “l’attuale Parlamento è dunque composto da parlamentari ‘nominati’ e non eletti: è questo il più grave vulnus alla Repubblica parlamentare disegnata nella nostra Carta costituzionale”. Si potrebbe insinuare che con questa legge elettorale un ceto politico ha voluto corazzarsi per sopperire alla propria debolezza di legittimità, e quindi non rischiare di rimettersi alla scelta da parte dell’elettore. Partiti che si auto-nominano sono una violazione della democrazia come lo sono tutte le organizzazioni oligarchiche, gruppi di potere che, ce lo aveva spiegato un secolo fa Gaetano Mosca, cercano di perpetuare il loro stato. Per questo scopo non c’è metodo migliore della cooptazione, della nomina d’autorità, il che equivale a togliere la possibilità di scelta a coloro che, i cittadini elettori, dovrebbero essere invece i depositari della sovranità. Con tutto il parlare che fanno i leader del Pdl del valore della sovranità popolare, come motivano questo esproprio? Non è forse vero che questo sistema elettorale soddisfa la loro idea di democrazia populistica per cui al popolo sovrano è riservato un unico potere: quello di acclamare o di ratificare la volontà del capo? Libertà apparente e sovranità di ratifica!

In conclusione, nessuno dei due diritti che il diritto di voto esprime, viene soddisfatto dall’attuale legge elettorale: non quello che si traduce in governabilità né quello che pertiene alla rappresentanza. Dopo un quindicennio di mutamenti normativi e di referendum ci troviamo al punto in cui il deficit di democrazia si traduce in un deficit di stabilità. Che senso ha persistere con una legge che non riesce a soddisfare neppure la logica del ‘tanto peggio/tanto meglio’? Con una legge che non riesce a mantenere nessuna delle promesse fatte, che anzi le rende addirittura utopistiche.

Nadia Urbinati     la Repubblica  9 settembre 2010

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