Marc Augé: «Rendiamo eterno il presente per paura del futuro».
L’antropologo francese parla del «nontempo» che caratterizza la nostra epoca e dei rischi di una società globale divisa in classi che ci porterà verso una pericolosa «oligarchia planetaria» piena di disuguaglianze «Non esiste una “questione Rom”, ma una cattiva accoglienza dei Rom. Quanto alla multietnicità è un fenomeno naturale». L’ultimo suo appuntamento italiano è stato il Festival della Filosofia svoltosi il mese scorso a Modena Carpi e Sassuolo. Ma non sono i «luoghi» a interessare Marc Augé, e neanche il tempo… Al «nonluogo», il neologismo da lui coniato nel ’92, ha ora aggiunto il «nontempo», ovverosia il presente eterno che caratterizza questa nostra epoca recente. Abbiamo incontrato il celebre antropologo francese in un nonluogo e nel nontempo per chiedergli uno sguardo sulla costruzione di un’Europa multietnica, sulle attuali reazioni di xenofobia che Francia e Italia hanno in comune e sul tema della diversità.
Professor Augé, cominciando dal presente, che fine ha fatto l’idea di uguaglianza nella società contemporanea?
«A livello globale c’è più ricchezza, ma non funziona il meccanismo di redistribuzione e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando in modo vertiginoso. La società globale verso cui andiamo è irriducibilmente divisa in classi. Non puntiamo, perciò, verso una “democrazia planetaria”, come pensa Fukuyama, bensì verso una “oligarchia” planetaria… Con il rischio di una disuguaglianza inimmaginabile oggi, perché riguarda soprattutto la conoscenza, tra quelli che saranno alla punta del sapere e quelli chiusi in una permanenza del non sapere».
Ma c’è ancora un futuro, visto che nel suo recente libro «Che fine ha fatto il futuro?» parla del «nontempo» che sarebbe davanti a noi? «Oggi c’è una sorta di ideologia del presente, si parla molto meno del “tempo”. Siamo accerchiati da strumenti di comunicazione che ci bombardano di messaggi e di immagini. C’è una istantaneità che, combinata alla sovrabbondanza visiva, dà l’impressione di essere rinchiusi dentro una specie di presente “artificiale”, eterno». Dalle sue parole sembra che siamo condannati all’«eterno ritorno dell’uguale» di nietzschiana memoria…
«È solo una impressione, che corrisponde alla nostra paura del futuro. Anche se la storia e la scienza vanno avanti velocemente, c’è come una sorta di rifiuto del presente. Abbiamo la coscienza che il pianeta è fragile, i nostri sogni di benessere non si realizzano, non c’è uguaglianza sociale e la storia è violenta. Ne sembriamo sorpresi,
allorché la storia è sempre stata violenta».
Come spiega che, nonostante il suo tragico passato di nazismo e fascismo, in Europa stiano riapparendo discorsi e atti xenofobi?
«C’è una crescita dei movimenti di estrema destra in Europa occidentale e nei paesi ex comunisti, come avevo già segnalato anni fa. L’Occidente ha una sua reazione di paura, ma non è l’unica, anche altri sono violenti. Ci sono ideologie mortifere nell’ombra, situazioni di tensione che purtroppo possono essere facilmente strumentalizzate».
A questo proposito, esiste una reale «questione Rom» o è una costruzione mediatica e politica? «Non c’è un “problema Rom”, ma una questione di cattiva accoglienza dei Rom. Le strutture abitative non sono all’altezza, non hanno nemmeno decenti connessioni energetiche di base. Invece ci sarebbero cospicui finanziamenti europei per creare una degna politica di integrazione, ma essi sono sottoutilizzati e persino non utilizzati dai governi. D’altro canto, è una questione fittizia, dal momento che i rumeni sono comunitari, liberi di tornare quando lo desiderano, e che in Francia, i due terzi della cosiddetta “gente del viaggio” sono cittadini francesi. L’argomento, almeno nel mio Paese, è bassamente elettorale, in vista delle prossime elezioni».
Ma in Europa c’è, in generale, un attacco all’essere umano diverso, all’immigrato… «L’Europa è cambiata molto con l’immigrazione, è in corso un inedito rinnovamento della popolazione. Basta scendere nella metro parigina e la multietnicità salta agli occhi. Ma solo quando ci sono crisi o incidenti, si parla, e in termini negativi, della diversità… Quando invece si potrebbe riconoscere come essa sia “accaduta” in modo del tutto naturale e con una positività dei nuovi rapporti interculturali. Non sono convinto, d’altronde, che il fenomeno di rifiuto del diverso sia maggioritario.
Con questi presupposti, quale rivoluzione culturale e politica è auspicabile? «L’espressione “rivoluzione culturale” è troppo connotata storicamente. Fermo restando che la nozione di cultura e quella di rivoluzione dovrebbero essere sinonimi. La cultura dovrebbe essere sempre critica se non rivoluzionaria. La cultura non è lo specchio dell’esistente ma la sua disamina, la sua messa in causa; dovrebbe essere attenta, vigile. La cultura non è apolitica. E la politica, come la morale, dovrebbe ispirarsi alla scienza, che è il contrario della ideologia: fondarsi sullo stesso spirito della ricerca, prospettare ipotesi, cercare soluzioni anche provvisorie, formulare idee nuove, senza basarsi sui modelli del passato. Per questo faccio anzi l’elogio del futuro».
Flore Murard-Yovanovitch l’Unità 7.10.10