Nei primi decenni dell’Ottocento, la domanda era: «Si può fare l’Italia»; oggi, alle soglie dei 150 anni dell’Unità, è diventata: «La si può salvare»? L’una domanda era dettata da speranza, l’altra da disperanza. Nella spazio aperto tra queste due parole c’è il dramma del nostro Paese. Nel suo nuovo libro, Salviamo l’Italia(Einaudi, Vele, pagg.134, euro 10), Paul Ginsborg ragiona sulla condizione della nostra vita nazionale mettendo costantemente a confronto, come in contrappunto, gli italiani del tempo che è il nostro con i patrioti del Risorgimento, il loro pensiero, la loro azione. Nel dispiegarsi delle sue argomentazioni, gli accadimenti di oggi, che possono sembrarci difficoltà nuove e insormontabili, visti nel lungo periodo risultano lievi increspature nella continuità d’una storia dalle radici profonde. Dunque: nervi saldi e senso di responsabilità; niente catastrofismi, sterili piagnistei o inutili invettive.
Alla fatidica domanda se l’Italia si può salvare, Ginsborg risponde risolutamente di sì, accompagnando il suo entusiasmo con un pizzico d’anglosassone, autoironica presa di distanza, perché «bisogna diffidare dei neofiti: hanno spesso la tendenza a entusiasmarsi troppo». Ginsborg è un illustre storico inglese che ha dedicato gran parte dei suoi studi alla storia italiana. A differenza di molti di noi, che tanto più conoscono il proprio Paese, tanto meno lo amano, lui ha seguito un percorso opposto, che l’ha indotto a chiedere la cittadinanza italiana. All’amico stupito che gli chiedeva: «Ma chi te l’ha fatto fare, e proprio ora, poi», un altro ha risposto ironicamente per lui: «Così potrai dire assieme a tutti noi altri: “mi vergogno di essere italiano”». Al contrario, il libro vuole essere un antidoto allo scetticismo che – inutile negarlo – di questi tempi portiamo dentro di noi. Per molti versi è una dichiarazione d’amore all’Italia che non sarebbe stata stonata sulle labbra di quei viaggiatori dal Nordeuropa che nei secoli scorsi scendevano da noi per il Grand Tour, alla scoperta della civiltà attraverso le meraviglie del nostro Paese. Del resto, fin dalle prime pagine, l’autore stigmatizza, con le parole di Carlo Cattaneo, «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese». Un vizio che il patriota milanese attribuiva a «una escandescenza di amor patrio», la stessa “escandescenza” che anche il neocittadino italiano Ginsborg è autorizzato a provare ma, nel suo caso, non per “dir male” e neppure per “dir bene” a priori ma per accostarsi al nostro Paese con atteggiamento di seria partecipazione ai suoi tanti problemi.
Quando ci poniamo una domanda come quella del libro: se e come “salvare l’Italia”, dobbiamo essere consapevoli che non stiamo parlando di qualcosa come uno spazio fisico, contenitore di esseri umani. L’Italia, così intesa, esisterà sempre e indipendentemente da noi. La domanda sarebbe insensata. Ha senso, invece, rispetto a ciò che oggi si esprime con la parola “identità”. La domanda è se si possa salvare l’identità italiana. Ma la “identità” non è per nulla un dato oggettivo, il carattere “così com’è” di un popolo, tanto più di un popolo come il nostro, dalla storia plurimillenaria e composita, ricca di esperienze e contraddizioni, di molte luci e molte ombre. Non è una fotografia. È una proiezione nella quale mettiamo molto di noi stessi e delle nostre visioni, come accade tutte le volte in cui ragioniamo di un oggetto spirituale, non sperimenta(bi)le. «Gli Etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi», osservava Senofane di Colofone. Così è anche per quella divinità terrena che è la patria, che ognuno s’immagina ornata di tutte le qualità ch’egli stesso onora. Per questo, i discorsi sull’identità (pensiamo, come esempio, all’identità europea), invece di creare unità di sentimenti e proponimenti, si risolvono incontroversie.Ciò che piace agli uni, dispiace ad altri. È identità italiana l’Accademia nazionale dei Lincei o il centurione che staziona, sotto il Colosseo, per farsi fotografare con i turisti? Un Leopardi definisce per qualche aspetto la nostra identità? Dipende. Si potrebbe perfino dire che la contraddice, che il suo pessimismo cosmico è il contrario della spensieratezza e della leggerezza tipiche del nostro modo di vivere.
Salvare l’Italia è dunque salvare la nostra idea di Italia, quella in cui proiettiamo tutto ciò che dibello, di buono e di giusto vi è secondo noi; al contrario, è sconfiggere ciò che di brutto, di cattivo ed’ingiusto vi si oppone. È dunque una battaglia. Il libro di Ginsborg è un libro combattente. Quali sono le virtù italiane da salvare? Innanzitutto, la tradizione delle libertà comunali, concepite in modo aperto al mondo, secondo lo spirito che animava l’amor di patria risorgimentale e che Ginsborg ritrova nella vocazione europeista di uno Spinelli o di un Rossi. Vi è poi la “saggezza riflessiva” e moderata dei ceti medi, di cui viene sottolineata la capacità di mobilitazione per obiettivi altruistici e civili. Infine, virtù di tutte le altre virtù, la mitezza del popolo italiano che sa temperare nella benevolenza anche gli attriti e i conflitti che, in altri contesti, si risolverebbero in tragedie. La mitezza, intesa come abitudine al confronto civile, rispetto, spirito d’accoglienza è la base della democrazia. Dunque, l’Italia da salvare è quella delle virtù democratiche.
Davanti a queste ragioni di speranza e di possibile salvezza si ergono le ragioni di disperazione: l’acceso familismo, il machiavellismo, il clientelismo organizzato come sistema di potere, una certa permanentevocazione alruere in servitium; un sistema politico sbilanciato dall’evanescenza delle opposizioni; una classe politica fiacca di fronte all’invadenza della Chiesa cattolica; la “supplenza” che questa esercita rispetto a quella; la criminalità che dilaga a ogni livello, da quella dei colletti bianchi a quella delle mafie; le disuguaglianze sociali e territoriali. Sono tutti fenomeni radicati nella nostra storia, dal Risorgimento a oggi, che il libro documenta ampiamente.
Di fronte a questo elenco, come possiamo guardare con fiducia alle virtù? Come parlare di mitezza in una «Repubblica dei dossier»? Di spirito federativo, quando abbiamo a che fare con cose come la «Repubblica dei Padani»? Di civismo “riflessivo” del ceto medio davanti al diffuso egoismo sempre più piccolo-borghese e al diffondersi di xenofobia e intolleranza? Le virtù saranno in grado di prevalere? Caro Paul, questa è la domanda, e la risposta è nell’invito a organizzarsi, a diffondere consapevolezza e ad agire affinché i caratteri positivi abbiano a prevalere su quelli negativi, invito che è il filo conduttore, nemmeno troppo nascosto, del tuo libro.Un invito consegnato alle future celebrazioni dell’Unità d’Italia, affinché non si riducano a vuote ed elusive rievocazioni.
Gustavo Zagrebelsky la Repubblica 12 ottobre 2010