La forza è (nel senso che sempre così è stato, anche se non è detto che sempre così sarà) la «virtù» della politica. La mitezza, invece, è una virtù sociale. Così, si distingue politica e società. I caratteri dell’una e dell’altra possono divergere, anche radicalmente, gli uni dagli altri. Ma è davvero così? Possiamo immaginare una società mite sotto un governo violento? Oppure, al contrario, una società violenta e un governo mite? A me pare che no, non possiamo. Non possiamo immaginare questa separazione.
Ogni forma di governo, cioè ogni forma di esercizio della funzione politica, corrisponde a una sostanza sociale. Così, se vogliamo una politica democratica, dobbiamo volere anche una società democratica. Se vogliamo imporre un governo dispotico, cioè basato sulla violenza, occorre che la società sia a sua volta violenta, che vi sia una contrapposizione tra chi sta su e chi sta giù, che ci sia pre-potenza nei rapporti sociali.Forma (politica) e sostanza (sociale) sono strettamente collegate, l’una retroagisce nell’altra. Una società non democratica, per esempio basata sullo sfruttamento di una parte a opera dell’altra, produrrà politica non democratica, anche se le forme sono democratiche (ad esempio, se esistono partiti, elezioni, associazioni, eccetera) e la politica non democratica sosterrà i caratteri non democratici della società. Non si può separare.
Così, di conseguenza, mi pare un errore fuorviante quello di tanti «ingegneri costituzionali» che si occupano di «regole» ma ignorano, come se non c’entrasse, la materia sociale che in queste regole dovrebbe scorrere. In altri termini, le virtù sociali (come i vizi) sono diffusive di sé. Se la storia del mondo ci dice che la politica non è (mai stata) mite, non è perché non lo possa essere, ma perché le società sono state violente.
È la storia dei rapporti umani, siano essi politici che sociali, che ha sempre mancato di quelle virtù che raccogliamo sotto il nome di mitezza. Chi vuole promuoverla effettivamente, deve operare e socialmente e politicamente. Un’ultima, capitale domanda rimanda al «guai ai miti», espressione che troviamo nel testo di Bobbio. Da giurista, la formulo così: se violenza e sopraffazione s’abbattono sui miti di questo mondo, quid iuris? La questione, naturalmente, non riguarda il diritto in senso legale. Riguarda il sentirsi moralmente «in diritto»? «In diritto» di reagire con gli stessi mezzi, tradendo la propria mitezza, o «in dovere» di subire, restandole fedeli ad ogni costo?
Innanzitutto, osserviamo che la mitezza non è propriamente una virtù reciproca, come la tolleranza, che è una virtù vicina alla mitezza, la quale non può vivere o, meglio, non lasciare vivere se non è ricambiata. «Il mite non chiede, non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata. Come del resto la benignità, la benevolenza, la generosità, la bienfaisance, tutte virtù sociali ma nello stesso tempo unilaterali (non sembri una contraddizione: unilaterali nel senso che alla direzione dell’uno verso l’altro non corrisponde un’eguale direzione, eguale e contraria, del secondo verso il primo. “Io ti tollero se tu mi tolleri”. E invece: “Io custodisco ed esalto la mia mitezza – o la mia generosità o la mia benevolenza – nei tuoi riguardi indipendentemente dal fatto che tu sia altrettanto mite – o generoso o benevolente – con me”). La tolleranza nasce da un accordo e dura quanto dura l’accordo. La mitezza è una donazione e non ha limiti prestabiliti».
Davvero? Non ha limiti prestabiliti? E se chi ha potere su di noi ci costringe a essere violenti, cioè ci priva della possibilità d’esercitare la nostra mitezza? D’accordo: la mitezza non è una virtù reciproca. Ma ha pur tuttavia bisogno di un «ambiente» nel quale possa esistere. Possiamo immaginare, senza cadere nel ridicolo, discorsi di mitezza in un campo di sterminio. Tutti gli ambienti sono compatibili con la mitezza? Auschwitz lo era?
Quando, per sopravvivere, siamo costretti ad essere violenti e spietati, perfino nei confronti dei nostri più prossimi, amici, familiari, compatrioti, esseri umani in genere, e anche al di là della cerchia degli umani, nei confronti degli esseri viventi, della natura vivente, che cosa dobbiamo fare? La mitezza illimitata non si trasformerebbe allora in un vizio: un vizio che ne è la prosecuzione, ma che è pur sempre un vizio: imbecillità, passività, ignavia, apatia, irresponsabilità e perfino connivenza e corresponsabilità?
I moralisti, a partire dall’ammonimento dell’Ecclesiaste 7, 16 («Non esser troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti?») hanno sempre messo in guardia rispetto all’eccesso nella virtù. «Noli effici iustus multum», dice Sant’Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni, vedendo nella sproporzione della virtù un atto d’orgoglio attraverso il quale passano i vizi. Noli effici mitis multum, potremmo dire noi. Il «lasciare gli altri essere quello che sono», che abbiamo visto essere una definizione propria della mitezza, in questi casi non si trasformerebbe, per eccesso di virtù, in un lasciare che gli altri facciano di noi quello che noi non siamo, che ci trasformino in violenti o in correi dei violenti?
L’inerzia, in questo caso, contro la prima apparenza, non sarebbe allora proprio un peccato d’omissione contro la mitezza? I teorici della nonviolenza distinguono tra non violenza attiva e passiva e non giustificano quella passiva. La nonviolenza deve essere attiva per appartenere alla virtù della mitezza.
Ma, con questa distinzione non si supera lo scoglio. Affinché essa possa essere attiva, cioè produttiva d’effetti benefici, occorre per l’appunto che esista un ambiente non totalmente degradato dalla violenza, nel quale il mite possa far vedere e valere, almeno come un piccolo bagliore nel buio, le proprie ragioni. Quando la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza e a sua volta l’alimenta creando divisioni, esclusioni, inimicizie, ingiustizie, sopraffazione, e paura, davanti al mite due strade si aprono: perseverare nella mitezza lasciandosi sommergere dalla violenza, oppure contraddirla per il momento, combattendo contro i violenti, scendendo cioè sul loro stesso piano.
La prima opzione è quella della speranza: la speranza nella Provvidenza divina che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male, o la speranza nella natura fondamentalmente buona degli esseri umani, una natura che lavora da sé per liberarsi delle scorie che la rendono cattiva. In entrambi i casi, la vittoria dei miti sarebbe assicurata, anche se non sappiamo quando, già su questa terra, secondo la promessa evangelica.
Ma se non si ha questa speranza e la si considera un rifugio solo consolatorio? Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza.
Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti. Una volta, fu chiesto al professor Bobbio in che cosa egli avesse speranza. La speranza è una virtù teologale, fu la risposta. Solo i credenti possono averla. Gli altri, tra cui lui stesso, devono fare affidamento sulle proprie forze e in queste porre le proprie laiche virtù (Congedo, in De senectute e altri scritti autobiografici, Torino, Einaudi, 1996, pp. 107-108).
Sulla premessa di questa risposta, non avrei dubbi nel dire che anche lui sarebbe stato dalla parte di quanti pensano che, superato il limite, miti o non miti che si sia, si deve cessare di subire e passare all’azione.
Gustavo Zagrebelsky La Stampa 13 ottobre 2010
Vedi: Basta con il silenzio è venuto il tempo della resistenza civile