Nell’estrema sobrietà del suo gesto Mario Monicelli ci ha consegnato un interrogativo doppio sulla vita e sulla morte. Qual è la sostanza della prima, che la rende degna di essere continuata? Qual è il significato della scelta di affrontare la seconda, volontariamente, precedendo il doloroso disfacimento del corpo? “I morti parlano”, diceva Arthur Schnitzler per indicare che il loro apparente assentarsi costituiva un segno presente per i sopravvissuti. Monicelli, con quel volto scavato segnato dalla barba, così simile al bronzo di un filosofo greco, non lascia dietro di sé un “fatto di cronaca”, ma una questione su cui misurarsi.
La grande assente
LA MORTE è la grande assente dello stile di vita contemporaneo. L’immagine del morente circondato dai suoi cari, cui rivolge l’ultima parola e dai quali riceve l’accompagnamento per il trapasso, appartiene al passato. Scomparsa è la famiglia allargata. Ma, soprattutto, il trend vitalistico della società attuale rimuove ferocemente il morire. La morte non si deve vedere tranne quando appare sugli schermi televisivi come elemento di eccitazione circense. La morte va allontanata e nascosta nelle stanze di ospedale. Chi è al tramonto viene affidato alla badante, quasi sempre straniera, a maggior ragione simbolo di provenienza da un altro mondo. Chi è morente è ospedalizzato. Ma poi un Monicelli, con la ricchezza della sua vita, della sua opera, del suo pungente irridere tutto e tutti, si presenta una sera nelle nostre case e costringe tutti a interrogarsi.
Da Tien an men a Eluana
LA PRIMA domanda è: di chi è la vita. Ricordo nel 1989 che i giovani dissidenti cinesi recandosi alla piazza Tien an men per l’ultima fiammata di manifestazioni, destinate a concludersi nel sangue, portavano intorno alle tempie una fascia rossa con scritte, che chiedevano perdono ai genitori perché mettevano a rischio la vita. Li vedevo seguire una carriola, con l’organetto che suonava l’Internazionale, e dinanzi alla battaglia decisiva loro non dimenticavano che la vita era stata un dono ricevuto. Per il credente la vita è un dono di Dio, sacro. E in nome di questa sacralità accetterà di bere sino alla fine il calice della sofferenza.
Per il filosofo, che ha il suo orizzonte etico nell’immanenza, la vita è un miracolo o (come per Leopardi) una sventura, di cui non può che decidere il soggetto. Non si può immeschinire la questione in contese di bande faziose, in un raffazzonato addobbarsi di livree guelfe o ghibelline come i tristi urlatori berlusconiani, che la sera della morte di Eluana Englaro ulularono in Parlamento “assassini”. Sulla soglia della morte, dove il passo è sospeso verso “là”, ci si può soltanto fermare rispettando la coscienza di chi sta per scegliere. Alcuni punti fermi si possono, però, intravvedere.
Non esistono vite non degne di essere vissute. Ogni corpo e ogni psiche martoriati dalla sorte – quale che sia – hanno il diritto di essere seguiti e assistiti. Per questo meritano rispetto le suore misericordine di Como, che per quattordici anni si sono prese cura amorevole di Eluana sperando contro ogni speranza. Ma non esiste neanche Parlamento, chiesa o tribunale che possa decidere sulla persona, quando valuta della propria vita. Solo io posso decidere cosa è degno per me. Soltanto la coscienza del singolo individuo può valutare il senso o il non senso di un accanimento terapeutico o il peso di unaspirale ditrattamenti dolorosi e alla fine inutili.
È ciò che Eluana aveva ben presente. Tenere in vita con la spada della legge è altrettanto crudele che toglierla. È insensato contrapporre artificialmente un “partito della vita” e un “partito della morte”. Sono finti partiti. Esiste solo la vita e la morte. E la grandezza o la disperazione del momento della scelta. Poiché scelta e coscienza sono inalienabili, non ha senso pretendere di etichettare le scelte in superiori o sbagliate. Seneca, che affronta la morte per preservare la sua libertà, non è inferiore a san Cipriano, che affronta i carnefici per non rinnegare il suo Dio. Coraggioso è Welby, che non teme di staccare il sondino. Coraggiosa è Daniela Martini, affetta da Sla, che il suo paese in Valdarno ha adottato per sostenerla nella battaglia contro la malattia. Entrambi vanno aiutati, entrambi vanno sostenuti e accompagnati nel cammino che sentono di fare.
Una comunità da coinvolgere
IL LORO destino, tuttavia, ci coinvolge. Non basta affermare farisaicamente la libertà dell’individuo, abbandonandolo al suo destino. Mary Ann Glendon, già presidente dell’Accademie delle Scienze pontificia (che riunisce notoriamente scienziati credenti e atei), sostiene che il grande nodo del crescente invecchiamento della popolazione in Occidente è di evitare di “spingere” gli anziani a desiderare la morte come soluzione più facile. Sarebbe la morte indotta, un misfatto ipocrita dei sistemi che premiano solo l’efficienza. Nessuno va lasciato solo, nessuno va lasciato disperato. Vita e morte devono tornare a diventare un evento della comunità, un fatto di noi tutti, se non vogliamo che il liberismo finanziario che ha già causato le catastrofi sociali sotto l’occhio di tutti, si saldi ad un darwinismo liberista, in cui l’iniezione si sostituisce semplicemente al salto nel burrone. A tutti, nelle loro scelte, è giusto stare accanto. L’altro giorno, quando silenziosamente, Mario Monicelli ha fatto irruzione nelle nostre esistenze, moltissimi a Roma e altrove hanno provato per un attimo l’inquietudine di questi pensieri. A lui e a tanti sconosciuti dobbiamo dare una risposta.
Marco Politi il Fatto Quotidiano 2 dicembre 2010
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