«Ribadire la primogenitura democratica e repubblicana del Risorgimento, ricordare che esso ebbe nella Costituente romana e nella Repubblica di Venezia del 1848-49 alcuni dei suoi episodi più capaci di parlare al futuro, significa tornare ai fatti». Un incontro con lo storico Mario Isnenghi alla vigilia dell’anniversario dell’unità d’Italia.
Il 150° arriva quattro anni dopo il bicentenario garibaldino, suscitando polemiche e contrapposizioni ancora più accese nel dibattito pubblico. Quali sensazioni ha avuto girando per l’Italia per lezioni e conferenze?
Mi pare che si possa registrare una vistosa divaricazione tra la dimensione ufficiale e il pullulare di iniziative in grandi e piccoli centri della penisola. È come se la Lega avesse regalato all’Unità un nemico: e a reagire è proprio l’Italia delle cento città, che mostra interesse e partecipazione. L’opinione pubblica e una sorta di storiografia «decentrata» rilanciano dunque l’attenzione verso il processo unitario. In questa ricorrenza anche la storiografia intesa come produzione scientifica dimostra di essere in ottima salute, mentre soffre la Storia del Risorgimento come disciplina accademica. Decisamente diversa è la situazione per quanto riguarda il discorso mediatico che passa attraverso i giornali e le televisioni. Qualche settimana fa, in un dibattito organizzato a Viterbo da Maurizio Ridolfi, discutevamo assieme la nuova edizione dei miei Luoghi della memoria e, rispetto alle dinamiche su cui ragiono nell’introduzione, lei ha usato due formule molto efficaci: «liberismo sfrenato della memoria» e «macchina del fango applicata al passato». Credo che ciò sia vero per alcuni nodi cruciali della storia d’Italia, in particolare per la Resistenza e il Risorgimento. Il trattamento mediatico del 150° lo conferma. Nel tempo ho cambiato il mio punto di vista sulla memoria: quindici anni fa ritenevo che si trattasse di salvarla dal prevalere dell’oblio, ora registro il proliferare di una memoria esorbitante che prescinde da qualunque ancoraggio ai fatti ed è espressione di un individualismo autocentrato. È un approccio diffuso che consente di muoversi con facilità a chiunque voglia intentare un processo all’Unità d’Italia: lo si fa lanciando «schizzi di fango» sugli eventi e i protagonisti, li si delegittima togliendo qualunque luminosità, negando programmaticamente motivazioni intense e positive con atteggiamento dietrologico. È raro trovarsi a interloquire direttamente con chi fa proprio questo approccio, che nella maggior parte dei casi parla attraverso il filtro dello schermo e della carta stampata, in sostanziale assenza di contraddittorio. È significativo però che nell’unico caso – non nel Veneto o in Lombardia, ma in Emilia – in cui mi è capitato di confrontarmi direttamente con queste posizioni, il mio interlocutore, un leader studentesco leghista, abbia concentrato le sue obiezioni sulla negazione di un autentico volontariato risorgimentale: i suoi coetanei dell’Ottocento non potevano essere veri volontari e convinti militanti, dovevano essere per forza «pagati» o comunque remunerati materialmente. Il «cosa c’è dietro?» si unisce oggi al «chi te lo fa fare?» in una coppia di stereotipi micidiale. Anche se non è affatto frequente scontrarcisi «dal vivo», si tratta di un discorso pubblico che tende a farsi «egemone», e che va ben oltre le pagine della «Padania». È il prevalere di uno scetticismo cinico che dal presente si proietta sul passato e mira ad additare e fustigare ovunque la «retorica». È paradossale se si considera che in realtà viviamo in un’epoca di opposte costruzioni retoriche: la «Padania», la retorica del pragmatismo, il dogma di fare dell’Italia «un paese normale». La grande opera in più volumi che ho diretto in anni recenti per la Utet è dedicata agli Italiani in guerra dal Risorgimento ai nostri giorni: come emerge dal sottotitolo, insieme ai miei collaboratori abbiamo inteso ridare centralità e dignità al conflitto quale motore della storia, contro la dilagante riprovazione morale e politica nei suoi confronti e la sua banalizzazione in tanti micro conflitti. È così che si possono recuperare l’esistenza e il valore di grandi emozioni collettive, di ideologie e vicende storiche fortemente partecipate: le retoriche nel significato alto del termine.
All’interno dello «sfrenato liberismo della memoria» non tutte le memorie sono uguali: godono di una considerazione privilegiata le rappresentazioni ciniche del passato, il disincanto programmatico, i punti di vista di chi «non la beve». Ma crede che il discorso mediatico non sia rappresentativo dell’opinione pubblica, di ciò che pensa e sente il paese?
Credo che le cose vadano meglio di come ci raccontano, non mi pare proprio che si possa parlare di freddezza verso il 150°. Del resto l’anniversario ha prodotto anche la nascita di romanzi e di film: al di là delle diverse valutazioni che se ne possono dare, il lavoro di Martone, Noi credevamo, è sicuramente da ascrivere tra i segnali di vitalità, sia nello specifico del panorama cinematografico, sia dal punto di vista più ampio della riconsiderazione del Risorgimento. In effetti, sulla base della mia esperienza, sono convinto che girare l’Italia offrendo una rappresentazione problematica dell’unificazione possa aiutare a farsi meglio ascoltare, a riconquistare alle altezze e non alle bassezze della retorica chi è immerso, volente o nolente, nel discorso mediatico spoetizzante. Credo sia venuto veramente il momento di Carlo Cattaneo e del suo federalismo repubblicano, della pluralità delle storie d’Italia riconducibili all’unificazione. È una pluralità di storie anche quella che alimenta oggi l’interesse per il 150°: il primo motore può anche essere il fatto o il personaggio locale, ma non si tratta di provincialismo. Dobbiamo evitare il rischio che queste tante Italie si chiudano come isole. Anche da Caprera Garibaldi era abituato a venire via: non possiamo chiuderci in tante piccole Caprera.
Preso atto delle divaricazioni di cui diceva, crede che sia sufficiente e lungimirante dedicarsi a rincorrere e correggere gli «strafalcioni» mediatici?
No. Sono convinto che sia il caso di abbandonare un atteggiamento difensivo e di utilizzare piuttosto l’occasione del 150° per fare politica della memoria, ripristinando innanzitutto il rispetto per la professionalità e lo specifico dello storico. Ma è lo storico per primo che non deve pensare di sé di essere un oratore, un letterato, un mistico. Il «programma minimo» è certamente ritornare ai fatti, dopo che l’ancoraggio ad essi come precondizione essenziale ha finito quasi per scomparire nell’uso pubblico della storia. Ma dalla stessa sottolineatura dei fatti si può avviare una politica della memoria che resti pienamente rispettosa della professionalità dello storico. Constatare che il Risorgimento fu politicamente laico, ribadirne la primogenitura democratica e repubblicana, ricordare che esso ebbe nella Costituente romana e nella Repubblica di Venezia del 1848-49 alcuni dei suoi episodi più rilevanti e capaci di parlare al futuro, valorizzare come è stato fatto dalla storiografia più recente la dimensione «di massa» del processo unitario, significa allo stesso tempo ritornare ai fatti e fare politica della memoria.
Ma crede che nella sostanza la proposta politica di democratici e repubblicani fosse davvero diversa da quella monarchico-moderata che prevalse?
Per molti versi sì e si può sostenere che nelle esperienze cui ho appena accennato siano stati gettati dei semi che alimentarono lotte e diedero frutto nei decenni successivi. Il Risorgimento sollecitò istanze di partecipazione e rivendicazioni di diritti che solo in parte vennero raccolti, ma che nella sostanza hanno a che fare con questioni ancora attuali. Durante la rivoluzione del 1848-49 fu avanzata inutilmente la richiesta di un battaglione femminile. Nell’autunno del 1866 le donne veneziane – come accadeva anche altrove ed era già avvenuto nel 1860-61 – chiesero invano il diritto di votare al plebiscito, accompagnando la protesta per l’esclusione con un’accorata rivendicazione di piena cittadinanza rivolta a Vittorio Emanuele II . Il fatto che in quel momento non ottenessero successo non toglie valore ed emblematicità a quelle richieste. È come se attraverso le istanze che si espressero e che rimasero frustrate si fosse dettata l’agenda politica dei decenni successivi. La redistribuzione delle terre al Sud è cosa che Garibaldi nel 1860 può solo nominare e indicare come obiettivo, ma rimane un nodo irrisolto la cui urgenza ritorna in momenti cruciali della storia d’Italia. Ribadire le rivendicazioni che il Risorgimento sollecitò così come le specificità delle proposte democratiche non significa tanto onorare le «care salme», ma considerare e rispettare i loro obiettivi anche in una prospettiva di lungo periodo.
Quello dei contestatori del Risorgimento le sembra un fronte unito ed univoco? Crede che ci siano implicazioni politiche dietro le diverse forme, più o meno esplicite e aggressive, che tende ad assumere la polemica antirisorgimentale?
A parte curiose contraddizioni «in seno al popolo», i fronti sono essenzialmente tre: quello leghista, che mi pare il più temibile, perché legato a un progetto politico che tende alla frammentazione e a un municipalismo dal volto poco umano. Il secondo fronte tradizionalmente antirisorgimentale è quello clericale, che di norma si esprime nei meeting di Comunione e Liberazione. È all’apparenza il meno vociante e attivo, probabilmente perché ha già raggiunto il suo scopo: non c’è più la Città del Vaticano, c’è «l’Italia del Vaticano». Se quello della duplicità di Roma e della duplice nostra cittadinanza è un problema irrisolto, mi pare che più che mai per il presente si debba parlare gramscianamente di egemonia confessionale anche sui non cattolici. Come ha sostenuto Sergio Luzzatto in una recentissima puntata dell’ «Infedele» senza che nessuno potesse smentirlo, nell’Italia di oggi non c’è nessuna forza politica che si faccia portavoce dell’anticlericalismo, eppure il clericalismo prospera. L’ultimo fronte, quello neoborbonico, ha una forza dubbia, le sue rivendicazioni non sembrano sfociare in obiettivi politici chiaramente identificabili. Ma sicuramente le riletture del Risorgimento che insistono sulle sofferenze del Meridione e sui torti subiti – diciamo il «paradigma vittimario» applicato al Sud – hanno un vasto mercato, come dimostra il successo del libro di Pino Aprile, Terroni. Ovviamente non si tratta di tacere la drammaticità di vicende come quella del brigantaggio o di negare l’utilità di discutere la questione meridionale: anche su questi temi l’ultimo lavoro di Salvatore Lupo, Il passato del nostro presente. Il lungo Ottocento 1776-1913, può rappresentare un riferimento condivisibile .
Senza voler drammatizzare la situazione, a qualcuno questi meccanismi possono ricordare il clima che precedette la scoppio della guerra nell’ex Jugoslavia: la delegittimazione degli «eroi nazionali» unificanti, la costruzione identitaria della propria «comunità» attraverso il recupero di veri o presunti torti subiti nel passato, l’autorappresentazione vittimistica.
È un motivo in più per non accettare il suggerimento di alcuni esponenti leghisti «moderati» di non dare troppo peso alle parole dei colleghi più accesi. È invece il caso di ripristinare il senso delle parole anche negli incontri cui partecipiamo in giro per l’Italia, di rifiutare l’irresponsabilità del linguaggio che vuol passare per leggerezza.
Sono convinta che le questioni in gioco nella discussione sul processo unitario abbiano una rilevanza che coinvolge il nostro presente. Credo sia davvero miope pensare che l’unico elemento di incompatibilità tra la Lega e il Risorgimento possa essere la dimensione territoriale unitaria che quest’ultimo ebbe come esito. Del resto lo stesso Presidente del Consiglio raccomandava la lettura della più rozza produzione revisionista come punto di riferimento per capire ciò che «veramente» era stato il Risorgimento. Non mi sembra un caso che le forze politiche più insofferenti alla Costituzione repubblicana alimentino la polemica verso la vicenda risorgimentale. Forse, rispetto al 150°, non è tanto l’unificazione territoriale di Nord, Centro e Sud a costituire un problema e a rappresentare il vero bersaglio. Certo. Mettiamo pure tra parentesi la forma monarchica dello Stato unitario nato nel 1861: in gioco c’è l’affermazione della statualità e di una statualità laica. Che sono entrambe, assolutamente, questioni di oggi.
Eva Cecchinato Il manifesto 13 marzo 2011