Le chiamano guerre senza uomini, unmanned wars, e stanno stravolgendo il nostro rapporto con i conflitti militari e anche col potere. Protagonista è un velivolo che non ha bisogno di pilota perché basta schiacciare da lontano un bottone, e l’aggeggio parte: si chiama drone. A seconda della convenienza esplora terreni oppure decima persone: è un proiettile che varca oceani. Traiettoria, bersaglio, funzioni sono decisi da impenetrabili cerchie di tecnici e politici. Dopo aver bramato per anni guerre a zero morti, adesso Washington predilige guerre a zero uomini. Costano meno, e soprattutto non sono politicamente dannose: l’avversario stramazza, ma svanisce il rischio di veder tornare le salme dei nostri soldati. La connessione tra potere e opinione pubblica si spezza, così come si spezza il nesso tra guerra, legge, democrazia. Non solo. Hai l’impressione che il mondo non sia che un video con playstation, azionato da ignoti individui al servizio di un centro sfuggente che s’avvale impunemente dell’extraterritorialità: come la smisurata mappa di Borges, che «aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso».Parte il proiettile, colpisce, e non resta che un ronzio (questo significa drone: il ronzio di un’ape maschio). In Afghanistan queste offensive sono cominciate da tempo ma adesso sono estese a Pakistan, Yemen, Libia. Dieci anni fa Washington disponeva di 50 droni, oggi di 7 mila.
Il drone è diventato una panacea, a partire dal momento in cui le guerre al terrore sono finite in vicoli ciechi. Una dopo l’altra, quasi tutte naufragano. In Afghanistan, dove sono schierati circa 4000 soldati italiani, la sconfitta è data per certa anche se non ammessa: l’aumento delle truppe deciso da Obama ha eccitato gli insorti, accrescendo l’odio delle popolazioni e consegnando a talebani e Al Qaeda terre sempre più vaste (l’intera cintura attorno a Kabul, le regioni ai confini col Pakistan: l’80 per cento circa del paese). Un rapporto pubblicato lunedì dall’International Crisis Group conferma l’esistenza di un’«oligarchia criminale di affaristi tra loro connessi, comprendente governanti corrotti e malavita, che domina l’economia usando gli aiuti occidentali». Questo il lido desolato cui è approdata la quasi decennale guerra afghana; a questo son serviti i 2.547 caduti della coalizione, i morti civili (tra 14.000 e 34.000), i milioni di profughi, e un costo, per l’Occidente, di oltre 500 miliardi di dollari. La sola America spende ogni mese 10 miliardi. Ecco perché sono nate le trattative Usa coi talebani: cioè con l’avversario che si pretende di combattere, sterminandolo magari con i droni. Il cambio di strategia avviene senza partecipazione degli europei, e senza che essi chiedano conto. Tutte le guerre, anche in Yemen e Libia, sono concepite come brevi e regolarmente s’impantanano. Il fallimento è immenso, l’idea delle missioni umanitarie è a pezzi. Il vocabolo stesso – umanitario – nella migliore delle ipotesi non dice più nulla. Nella peggiore è svilito, giustificando dentro e fuori casa una diffusa e orgogliosa indifferenza al soffrire e morire dell’altro.
È a questo punto che è apparso il drone, cui Obama ricorre assai più sistematicamente di Bush: in Afghanistan e Libia ma anche in paesi come lo Yemen, dove pretende di non guerreggiare, o come il Pakistan, col quale Washington formalmente è alleato. Muovendosi nell’aria come predatori, i droni rappresentano una novità da molti punti di vista: politici, legali, etici. Negli Stati Uniti non è l’esercito a gestirli ma la Cia: difficilissimo chiamarla a rispondere democraticamente delle sue cacce extraterritoriali. E pressoché impossibile, per cittadini e Parlamenti, arginare i governi che danno ordini. Che si sia aperto un baratro tra popolo e potere, storcendo la democrazia, lo si è visto quando Obama si è rifiutato di sottoporre l’intervento libico all’approvazione parlamentare: la guerra condotta con droni e senza uomini non è guerra, ha obiettato. «Non è ostilità». La legge del 1973 che obbliga i Presidenti a smettere dopo 60 giorni i conflitti, salvo autorizzazione del Congresso, non vale più. I droni annientano postazioni libiche e uomini, l’operazione è già costata al Pentagono 716 milioni di dollari e se continua costerà entro settembre 1,1 miliardi, ma appunto: è un ibrido. Stephen Walt, professore di relazioni internazionali a Harvard, denuncia l’inaudito sotterfugio.
Che stiamo facendo in Libia – domanda nel suo blog – se non una guerra? «Quel che sappiamo, è che abbiamo inviato missili Cruise e droni per colpire vari bersagli militari; che più volte abbiamo attaccato il quartier generale di Gheddafi; che diamo informazioni agli alleati Nato che compiono raid per proprio conto». Quando Bush s’armò contro il terrore molti lo criticarono, in America ed Europa. Era sbagliato il termine guerra: dava ai terroristi il nobile statuto di belligerante. Meglio escogitare una politica che riconoscesse le radici del male, accompagnandola a sequestri bancari e azioni di polizia come si fa con le mafie. Lo scacco in Iraq e Afghanistan non ha tuttavia insegnato alcunché e la vecchia strategia continua, solo che s’acquatta e mimetizza: i droni rivoluzionano la tecnica, i cervelli, la democrazia, ma a fini conservatori. La politica di ieri vien resa più efficace eludendo la legge internazionale, sottraendola a controlli democratici. La parola guerra scompare, ma guerra resta: per chi viene ucciso non è una differenza enorme, farsi ammazzare da velivoli con piloti o senza. In patria, saranno ricordati come morti in guerra. Dominiamo forse la mappa immaginaria di Borges. Non i vocaboli del mondo reale. La nuova guerra viene condotta nel frattempo in Pakistan e Yemen. Anche qui, è stato Obama a incrementare le occulte guerre senza equipaggi. In Yemen, l’offensiva è condotta nella convinzione che né il governo locale né gli istruttori militari Usa siano capaci. La guerra senza uomini è clandestina, opaca, mortifera: nessuno è responsabile. Lo Stato israeliano è ricorso ripetutamente agli UAV (unmanned aerial vehicles) nella guerra in Libano del 1982 e a Gaza (Piombo Fuso) nel2008.
È l’arma perfetta per un occupante che si finge non occupante. Lo scandalo è che nessuna discussione seria è iniziata, tra europei e americani, sul futuro in cui stiamo entrando. Da tempo le amministrazioni Usa sprezzano la Nato, che richiede troppe consultazioni pubbliche ed è vista come residuo fastidioso della guerra fredda. Solo gli Stati europei, governi italiani compresi, s’aggrappano accidiosamente al residuo sfilacciato. Eppure ce ne sarebbero, di cose da ripensare. L’articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra ma non l’esclude, visto che «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità» imposte da organismi internazionali di cui siamo parte e che promuoviamo. Ma queste istituzioni dove sono, quando si tratta di pace e guerra? L’Europa non ha il fegato né per chiederlo, né per osare una propria risposta. Non rimane che questo ronzio d’api in cielo, ma nessuno sa chi spari, chi sia giuridicamente imputabile. Spesso non si sa neanche il volto dell’ucciso, nonostante l’anonimato sia vietato dal diritto internazionale. È proibito anche seppellire la vittima in fosse comuni o luoghi non identificabili, come il mare nel quale è stato immerso Bin Laden: perché se scoppia una controversia, come riesumare la salma?
Cosa significa l’articolo 11, in tali condizioni? La guerra dei droni è a immagine della mappa di Borges, e arriverà il momento in cui i cartografi la riterranno inutile: «Non senza empietà, l’abbandoneranno alle inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell’Ovest sopravvivono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti».
Barbara Spinelli la Repubblica 29 giugno 2011