Che tuffo al cuore, quelle parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale, che questo giornale ha tanto opportunamente ripubblicato in questi giorni. Già allora avevano suscitato alcune aspre reazioni proprio in quella sinistra di cui Berlinguer è stato l’ultimo grande leader, voci che si levarono dal cuore del suo stesso partito. Da allora, è curioso, tutto è cambiato fuorché il genere di argomenti, anzi per essere onesti di non-argomenti, che i critici del “moralismo” accampano contro ogni rinnovata denuncia della questione morale. E non parlo di quei “servi liberi” che hanno inventato per la parola “moralismo” un paio almeno di nuove accezioni negative, oltre a quella corrente di atteggiamento ipocrita, caratteristico di chi predica bene per razzolare male. Non parlo dei vessilliferi delle mutande, che hanno inventato addirittura una versione omertosa del vangelo, dove “chi è senza peccato scagli la prima pietra” vuol dire “se faccio schifo io fai schifo anche tu, e allora sta’ zitto perché non ti conviene”, o che hanno sostituito nella loro mente la parola “giustizia” con l’opaco spregiativo “giustizialismo”.
Parlo proprio, e con dolore, della convinzione ancora diffusa a sinistra che usare in politica argomenti morali sia appunto cosa da non fare, come confondere le categorie. “Moralismo”, appunto, in questa ulteriore versione di machiavellismo veramente troppo spicciolo, sarebbe giudicare amici e avversari non sull’aspetto “politico” delle loro idee o dei loro atti, ma su quello “morale”. Con un corto circuito bizzarro, per cui (primo non sequitur) l’aspetto “morale” sarebbe necessariamente quello “privato”, e dunque (altro non sequitur), politicamente irrilevante. Così a quell’epoca persone degnissime – lo riporta Luca Telese nel suo articolo su Berlinguer (“Il Fatto Quotidiano”, 5.7.11) – lessero nelle parole di Berlinguer un “pericoloso” attacco alla “politica” dove semmai c’era un attacco ai partiti, che però testimoniava dall’interno di uno di essi di una residua possibilità di riscatto, che si sarebbe dovuto accogliere con gratitudine e rinnovata speranza. Così oggi c’è chi sostiene che la “colpa” non è una categoria politica. C’è chi addirittura nega l’esistenza di una questione morale anche nel Pd – cioè nega l’evidenza. E non tanto o soltanto per la dovizia di fatti accertati, alcuni di rilievo addirittura penale, che coinvolgono politici e amministratori, e che, qualcuno potrebbe obiettare, sono bazzecole in confronto ai crimini in grande scala nella logica bisignanesca del “mangia tutto quello che puoi mangiare”, con la quale siamo arrivati al paradosso inaudito di un governo che distrugge i beni della nazione per nutrirne il suo personale.
Ma molto più si nega l’evidenza se torniamo al senso profondo delle parole di Berlinguer, che non denunciava fatti spiccioli, ma la riduzione dei partiti a “macchine di potere e di clientela”: dove l’accento va posto su ognuna delle parole, e forse in particolare sulla prima. Tornano in mente i meccanici ritornelli cui s’è ridotto l’eloquio politico dei leader del Pd, ai logori cliché che continuano a significare, proprio come diceva Berlinguer, mancanza di ideali, programmi vaghi e soprattutto “passione civile zero”. Come l’ossessivo ripetere “agli italiani non importa nulla”, “non sono questi i problemi degli italiani” quando un capo di governo stava per metter mano a unariforma della giustizia che era semplicemente eversiva della democrazia. Espressione pigra e meccanica poi corretta, ma tardi. Qual è dunque il filo che lega questa enorme sottovalutazione della questione morale attraverso le generazioni della sinistra? È – e chiedo perdono se ripeto cose dette, come si ripetono le occasioni di dirle – la nefasta e interessata confusione fra autonomia e indifferenza della politica rispetto all’etica.
L’autonomia della politica è una scoperta (sacrosanta) della modernità, ma è resa possibile dalla comprensione del fatto che l’ordine sociale è un bene medio e non un bene ultimo, un mezzo e non un fine. Fine e bene ultimo è la libera fioritura degli individui, nel rispetto reciproco della loro pari dignità e dei loro eguali diritti. La politica è l’arte di governare la convivenza in modo che questa fioritura diventi sempre meno impossibile a ciascuno e a tutti. Dunque la sua autonomia è legata alla sua natura di mezzo e non di fine: come un’arma che bisogna saper maneggiare secondo le sue regole. Proprio per questo il maneggio non può essere indifferente al fine, dunque alle condizioni per realizzarlo. Saper maneggiare la pistola (autonomia) non basta, bisogna maneggiarla a difesa della giustizia nella libertà (non indifferenza). Separate queste due cose e avrete i nostri mali: o la rapina della cosa pubblica (della ricchezza, del nutrimento, della disciplina, della verità e della libertà dovuti a ognuno per poter vivere da uomo libero e soggetto morale responsabile): ecco la banda B &B. Oppure la subordinazione del fine al mezzo, della buona politica alla logica degli apparati, all’autoriproduzione dei partiti e di tutte le altre consorterie. E se il maggior partito dell’opposizione non capisce questo, chi tradurrà in buona politica il risveglio delle coscienze?
Roberta De Monticelli il Fatto Quotidiano 9 luglio 2011
La fine dell’innocenza
L’intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari contiene una scudisciata che il giorno dopo farà sobbalzare i lettori di La Repubblica e metà della classe politica italiana: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Nessun leader, nel tempo della prima repubblica, con l’esclusione dell’antisistema Marco Pannella – aveva mai osato tanto. Sono passati trent’anni da quel giorno. Trent’anni di questione morale. Trent’anni di rabbia e di oblio. È stato esattamente trent’anni fa, che in una estate calda come questa Enrico Berlinguer ha coniato – in una intervista che sarebbe entrata in tutti gli archivi – una locuzione destinata a raccontare l’Italia di allora, quella di Mani pulite (che sarebbe arrivata undici anni più tardi) e – purtroppo – anche quella che stiamo vivendo, nel tempo dei pizzini, degli appalti facili, delle p3 e della P4, dei contributi spontanei alle fondazioni “amiche”. Intervista “profetica”, si disse. Ma in realtà nata con un processo di elaborazione che in Berlinguer fu tutt’altro che rapido. Oggi Scalfari ricorda quel giorno con una nitidezza cristallina: “Parlammo ore. Segnai pochi appunti e poi ricostruii di getto tutta l’architettura del discorso. Berlinguer era uno dei pochi politici che mi considerava e di cui mi consideravo amico. Poteva capitare che cenassimo insieme, a casa mia o a casa sua. Ancora più frequentemente a casa di Tonino Tatò. Ma quando poi l’intervista era scritta, con lo stesso Tatò iniziava un lavoro minuzioso di limatura. Di quell’intervista – aggiunge il fondatore di La Repubblica – toccammo poco o nulla. E mi accorsi subito che la sua portata avrebbe trasceso quella della cronaca politica”.
ERA L’ITALIA che esce faticosamente dagli anni di piombo. L’Italia del terremoto, di Vermicino, delle lacrime di Sandro Pertini. Ed è il Pci che sta abbandonando la Solidarietà Nazionale e l’accordo con la Dc per passare all’opposizione. Ma lo strappo che questa svolta produce nel partito non è, e non può essere, indolore. Lo scontro che è già nell’aria prende corpo quasi improvvisamente, anche perché, il grande critico della svolta ha il nome del dirigente più pesante nel gruppo dirigente di quel Pci: Giorgio Napolitano. Sono curiosi i paradossi della storia, quando passano trent’anni. Oggi forse Napolitano, che fu il fiero oppositore di quella svolta, limerebbe molte delle sue critiche del 1981 a Berlinguer, e condividerebbe molte delle sue affermazioni. E probabilmente Massimo D’Alema, che allora era un sostenitore del segretario, oggi lo criticherebbe. Si disse che quel dialogo del segretario del Pci con Scalfari era stato l’atto fondativo dell’antipolitica: oggi, dopo tutto quello che la politica ci ha regalato, possiamo forse dire che quella critica drastica era (ed è) l’unica possibilità di salvezza della politica pulita. “I partiti – diceva Berlinguer – sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi – sosteneva – comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune”.
In quei giorni, secondo la migliore tradizione del gruppo dirigente comunista, le ragioni della politica contingente vennero dissimulate dietro la disputa di dottrina. Napolitano aveva scelto di attaccare Berlinguer, partendo da lontano. Ovvero dall’editoriale che doveva scrivere per commemorare l’anniversario della morte di Togliatti, ma
usando Togliatti per criticare Berlinguer su tre punti: il giudizio sul degrado dei partiti, la denuncia inappellabile che Berlinguer faceva sulla questione morale, la chiusura netta che il segretario del Pci opponeva a Craxi, il rifiuto della via socialdemocratica in nome della cosiddetta “terza via” fra socialismo reale e capitalismo. Ma il giudizio più duro era quello sulla società italiana e sul suo degrado: “I partiti – diceva il segretario del Pci – hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali”. Parole che sarebbero passate alla storia come il manifesto della “Diversità”.
“Io – diceva il segretario – credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità”. E Scalfari: “Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”. Berlinguer ovviamente negava: “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Ma noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato”.
Per Napolitano era troppo. Racconterà di aver telefonato a Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti: in quella clamorosa esternazione coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica, visto che non riconoscevamo più nessun interlocutore valido, e negavamo che gli altri partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela esprimessero posizioni e programmi con cui confrontarci”. Insomma, lo spettro della cosiddetta “antipolitica”, e l‘esaltazione del primato dei partiti, il dilemma su cui ancora oggi si dibatte a sinistra, (a partire dal celebre discorso di D’Alema a Gargonza che preconizzò la fine dell’Ulivo nel 1996). Il primo segnale premonitore della Questione morale a sinistra, era arrivato da Torino, con lo scandalo Zampini. Un imprenditore era andato dal sindaco comunista Diego Novelli dicendo di aver pagato una tangente. Novelli (berlingueriano di ferro) anziché insabbiare disse: “Lei deve andare dal magistrato”.
Nel 1992-93, nel ciclone di Tangentopoli, emersero le confessioni di un segretario di federazione milanese, Cappellini, che ammetteva di aver preso tangenti e di “averle buttate nel calderone dei bilanci delle feste dell’Unità”. Parole che sconvolsero i militanti di base, insieme alle rivelazioni successive che riguardavano pagamenti per la metropolitana di Milano, e poi l’epopea del compagno “G”, alias primo Greganti, e quella della tangente “scomparsa” alle soglie di Botteghe Oscure su cui indagò (senza trovare prove definitive) il pm Di Pietro. Achille Occhetto arrivò a proclamare, contro la corruzione, “una seconda Bolognina”. Poi i piccoli smottamenti di costume come l’entusiastico grido di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: “Abbiamo una banca?”. Proprio Fassino, nel suo Per passione, aveva ricostruito l’ultima parte della vita di Berlinguer come un partita a scacchi bergmaniana con Craxi, dove il segretario muore un attimo prima che l’altro gli faccia scacco matto. Parole di pessimo gusto, in ogni caso. Soprattutto alla luce
degli scandali “sinistri” di questi giorni. Ha detto Pierluigi Bersani al Messaggero: “Nel nostro partito non c’è nessuna questione morale”. Ma la questione morale – sia per Berlinguer sia per Napolitano – prima che un problema giuridico, era uno stile di vita.
Luca Telese il Fatto Quotidiano 7 luglio 2011