Da quando siamo rinchiusi come morti viventi nella recessione, è soprattutto sulle sciagure passate che riflettiamo, illuminati da economisti e raramente purtroppo da storici. È un rammemorare prezioso, perché delle depressioni di ieri apprendiamo i tempi lunghi, gli errori, gli esiti politici fatali, specie nella prima metà del secolo scorso. Anche sulle grandi riprese tuttavia conviene meditare: sulle rivoluzioni economiche che hanno aumentato e diffuso il benessere. In particolare,vale la pena ripensare la scintilla da cui partì la Rivoluzione industriale del XVIII secolo. È allora infatti che l’Europa comincia a crescere a raggiera, con impeto. Anche se costellata di iniziali fatiche, ingiustizie, ricordiamo quella rivoluzione come un’epoca d’oro, e forse proprio per questo l’evochiamo di rado. Dai tempi di Dante lo sappiamo: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e ciò sa ‘l tuo dottore”.

Il perché di quella scintilla, i fattori che la resero possibile, il nuovo vocabolario che ne scaturì, concernente in special modo la questione sociale: tutti questi elementi possono aiutarci a capire non solo la genesi di una crescita accelerata, ma a vedere nella crisi odierna una sfida, una trasformazione possibile. Se la ricchezza sta spostandosi dall’ovest all’est del mondo, se l’Occidente paga questo dislocamento con una Grande Contrazione (non solo del prodotto interno, anche di diritti accumulati negli anni del benessere) vuol dire che siamo davanti a un incrocio simile dei sentieri. Che urge in chi analizza il presente – i politici e anche gli economisti, intrappolati spesso nei loro modelli matematici – una prospettiva più lunga, un’attitudine a alzare l’occhio perché veda l’orizzonte, oltre che il proprio naso. La memoria storica e delle passioni umane sarà lievito di tanta impresa. Chi voglia avventurarsi su questo sentiero apprenderà molte cose dall’ultimo libro di Deirdre McCloskey, storica ed economista all’Università dell’Illinois di Chicago (Bourgeois Dignity: Why Economics Can’t Explain the Modern World, 2011).

 Come dice il titolo, la Rivoluzione Industriale – il Grande Fatto, lo chiama l’autrice – non è dovuta a fattori solo economici: le garanzie date ai diritti di proprietà, la scienza in espansione, la drastica riduzione dei costi dei trasporti, utile al commercio. I fattori tecnici sono cruciali, ma la scintilla decisiva non fu tecnica: fu una conversione di atteggiamenti verso le passioni della borghesia, e di due classi in prima linea, i commercianti e gli industriali delle manifatture. Fu perché venne loro data una dignità sociale mai posseduta, che la produzione industriale ricevette quella formidabile spinta. La rivoluzione francese aveva fatto della borghesia un protagonista politico, non ancora morale. La ricchezza non era più un imbarazzo per il commerciante e l’industriale – l’Olanda del ’600 fu precursore, basta vedere i dipinti del suo Secolo d’oro – e conquistarsela con le proprie mani cessò di essere un’attività non onorata. La rivoluzione della dignità borghese comincia in Nord Europa (McCloskey parla di «rendimento della dignità», dignity return), e quest’onore reso a manifatturieri e bottegai spinse a produrre e scommettere sul futuro. Se parliamo di rivoluzione, è perché in concomitanza declina – fino a svanire – il rendimento economico di classi non borghesi (le corporazioni di allora) che fin qui erano le sole a essere nobilitate moralmente: i guerrieri, gli aristocratici che vivevano di rendita, il clero.

Il problema, oggi, è sapere quali siano le classi, le attività, le passioni che devono ottenere dignità, affinché un nuovo Grande Fatto possa non solo prodursi ma radicarsi, contando sugli espedienti tecnici ma anche (come faceva Adam Smith) sullo studio delle passioni morali. Porsi questa domanda significa non solo dare spazio e voce a persone e occupazioni non sufficientemente onorate, ma decidere quale crescita vogliamo, diversa da quella iniziata con la Rivoluzione Industriale. All’Europa, conviene investire nel suo nuovo e nel suo futuro, non in industrie migranti verso Asia o Sud America. L’industria dell’auto probabilmente tramonterà, da noi. Si parla in proposito di crescita sostenibile, ma questo sostenibile va raccontato, spiegato: se «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni» (Rapporto Brundtland, 1987, Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo) l’Unione deve scegliere produzioni che domani saranno d’avanguardia: energie alternative, trasporti cittadini comuni più che individuali, conoscenza, e in genere quello che viene detto «capitale umano» e più semplicemente possiamo chiamare persona umana. Deve investire prioritariamente su istruzione, ricerca, cultura, convivialità cittadina.

Per una svolta così importante, gli Stati europei non bastano: sono i superstiti stanchi della vecchia rivoluzione. Troppo enorme è lo sforzo che stanno facendo per mettere a posto i propri conti, e neanche sanno bene se servirà. Il nuovo Grande Fatto, solo l’Unione può generarlo, e per questo il dogma tedesco che predilige la «casa (nazionale) in ordine» ha un respiro così corto. Ma per riuscire, l’Europa va rivoluzionata. Per investire nel nuovo ha bisogno di poter spendere, dunque di un bilancio più forte. Per contare deve saper decidere senza che il liberum veto di Stati fatiscenti la blocchi. Quali sono oggi le persone e le classi cui va restituita dignità, e una cittadinanza vera? Gli immigrati, senza i quali finanziare il Welfare è impossibile.  I precari, che non riescono a mettere a frutto l’istruzione ricevuta e tribolano come apolidi in patria. I professori e ricercatori, che erano una classe nobile nell’800 (non dimentichiamo che in Francia, dopo la scuola obbligatoria e la separazione Stato-Chiesa, Charles Péguy li chiamò gli ussari neri della Repubblica) e sono oggi poco stimati, vessati, demotivati.

In sostanza, è al futuro che occorre dare dignità, preparandolo ora. Lo stesso dramma dei debiti sovrani muta di natura, in quest’ottica. In un saggio uscito sul suo blog, un giovane studioso di bolle finanziarie dell’università di Michigan, Noah Smith, ragiona così: il debito di uno Stato, di per sé non malvagio, lo diventa se lo scarichiamo sulle generazioni future per poter consumare adesso quel che desideriamo (http://noahpinionblog.blogspot.com). Quel che Smith propone è di grande interesse: «Nel mondo reale (non nei modelli matematici) la questione essenziale non è il debito, ma la scelta fra due ordini temporali (intertemporal choice). Importante non è quanto debito accumuliamo, ma se vogliamo spostare il consumo dal futuro al presente, anziché (come dovremmo, potremmo) dal presente al futuro». Tutto dipende da come spendono i governi, e dagli investimenti che possibilmente insieme, in Europa, privilegeranno: spenderanno per consumare più oggi, o più domani? Lasciare che i consumi si spostino dal futuro al presente (dunque pesare sulle generazioni a venire) significa ridurre gliinvestimenti e consumare oggi. È il percorsocontrario che va imboccato: investendo sulle produzioni utili nel futuro, consumabili in modi nuovi da figli e nipoti. Anche questa è rivoluzione della dignità.  È onorare chi viene, e non ha ancora voce né rappresentanza. È meno remunerativo nell’immediato, non porta voti ai partiti che vivono solo per il breve termine (cioè per i mercati) e ignorano il nuovo spazio pubblico che è l’Europa; ma nel lungo periodo apre speranze. È giudicare quello che abbiamo e facciamo – terra, clima, politica – alla luce delle parole di Alce Nero, il capo Sioux: “La terra non l’ereditiamo dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli“.

 

Barbara Spinelli      la Repubblica   11 gennaio 2012

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