Il 2 giugno 1882 muore nella sua casa di Caprera
GIUSEPPE GARIBALDI
Padre della Repubblica Romana del 1849
In quei mesi non stava solo sul Gianicolo. Nel dicembre 1848, appena venuto a Roma, si trasferì a Rieti per formare la sua Legione Italiana ( i garibaldini, per intenderci). Da lì si mosse continuamente per i vari confini della neonata Repubblica Romana, venendo a Roma per partecipare qualche volta alle riunioni dell’Assemblea Costituente, in cui era stato eletto nella circoscrizione di Macerata. Soprattutto controllava i confini con il Regno delle Due Sicilie aspirando d’invanderlo ben prima del fatidico 1860. Verso la fine di aprile si trasferì, con la sua Legione, a Roma per approntare la difesa della Repubblica durante il primo attacco dei francesi guidati dal generale Oudinot. Li sconfisse in una straordinaria giornata, il 30 aprile 1849, in cui rivelò all’Italia e all’Europa le sue doti di stratega, fino ad allora praticamente legate solo alla grandiosa epopea sudamericana, in Brasile e in Uruguay, di anni prima ( la partecipazione alla I Guerra d’Indipendenza nel 1848 era stata marginale ). Il Garibaldi eroe, guida, mito italiano comincia a nascere tra Villa Pamphili, il Gianicolo e Porta Cavalleggeri, luoghi di quella battaglia vittoriosa.
Così ha descritto l’impatto di Garibaldi sui tanti giovani e artisti presenti a Roma nel 1849 G.M. Trevelyan nel suo libro straordinario ” Garibaldi e la difesa della Repubblica Romana”, edito nel 1906:
Garibaldi conquistò d’ un sol colpo il cuore di quel mondo di bohémiens. Al suo arrivo, gli artisti inglesi, olandesi, belgi, perfino un francese, e tutti gli italiani come un sol uomo, si arruolarono subito se non lo avevano già fatto prima, o nella sua Legione o nella sua Guardia Civica o nel corpo speciale degli Studenti che consisteva di trecento soldati fra scolari ed artisti. Prendendo la vita e la morte a cuor leggiero, si batterono tutti valorosamente per Roma ; il giorno dopo ogni battaglia i superstiti solevano adunarsi a cene allegre nei caffè per congratularsi d’ esserne usciti salvi. Un italiano raccontò poi al rev. H. R. Haweis la storia della sua conversione. Un giorno che Garibaldi levava nuove reclute in una piazza pubblica, egli era uscito con i suoi amici anch’ essi artisti, a vedere cosa succedeva. « Non avevo affatto l’ intezione di arruolarmi (disse egli al pastore inglese). Ero giovane, artista, ero uscito per mera curiosità ; ma non dimenticherò mai l’ impressione di quel giorno quando lo vidi sul suo bel cavallo bianco nella piazza del mercato, con quel suo nobile aspetto, con quel suo viso calmo e dolce, la fronte alta e liscia, i capelli e la barba bionda; — tutti dicevano lo stesso. — Più che altro egli ci ricordava la testa del Salvatore nelle Gallerie. Io non potei resistere : lasciai il mio studio e lo seguii ; migliaia hanno fatto come me. Bastava che egli si mostrasse ; lo adoravamo e non potevamo far altro che adorarlo ». E questa non era esaltazione giovanile e passeggiera, perchè undici anni più tardi il narratore stesso combatteva ancora con Garibaldi a Napoli.”
Nel mese di maggio Garibaldi si mosse per il Lazio centro-meridionale: a Palestrina ( 9 maggio), a Velletri, Artena, Anagni fino ai confini con il Regno delle due Sicilie che oltrepassò rischiando di arrivare fino a Napoli: tutto questo per respingere l’esercito Napoletano che aveva attaccato la Repubblica. A Velletri, il 20 maggio, mise in fuga addirittura il re Ferdinando II. Arrivò a Frosinone, ad Arce: qui giunse un ordine del Triumvirato guidato da Mazzini che lo inviava verso nord. Passando per Terni e Narni doveva raggiungere le Marche e fronteggiare gli austriaci. Con amarezza accettava di ubbidire, perchè era convinto di perdere il frutto della spedizione nel Regno di Napoli. Ma eccolo, di nuovo in marcia: per lui, comunque, si poteva realizzare il sogno di battersi contro gli austriaci, i nemici per antonomasia, i nemici dell’Italia che lui sognava nel profondo del suo cuore. Così scrive al suo capo di Stato Maggiore Angelo Masini in quelle ore:
” Da questo momento voi preparate la legione a uno scontro co’ tedeschi. Dite ai legionari che si famigliarizzino con quell’idea, che ne facciano il pensiero d’ogni minuto della giornata. Che si famigliarizzino con una carica a ferro freddo…”
Passando per Roma, il 31 maggio mentre si recava al nord, fu fermato dal Triumvirato. Doveva restare a Roma: tutte le forze era necessario che si concentrassero nella resistenza ai francesi che, dopo l’armistizio del 1 maggio, si preparavano di nuovo ad attaccare Roma. Lo scontro tanto desiderato con gli austriaci era rimandato al 1859 e al 1866, quando lui vincerà l’unica battaglia per gli italiani, a Bezzecca, in quella Terza guerra d’Indipendenza condotta in maniera superficiale dall’esercito del Regno d’Italia.
Doveva rimanere a Roma. Rimarrà sul Gianicolo da quella tragica e gloriosa Domenica di Sangue, il 3 giugno 1849, quando con tutto l’ardore di cui era capace e tutto il coraggio straordinario dei suoi Volontari, dei Bersaglieri, degli studenti e di altre formazioni, cercò di impedire che i francesi consolidassero la conquista del Casino dei Quattro Venti di villa Corsini, lì di fronte al Gianicolo, grazie all’inganno del generale Oudinot che aveva tradito la parola data di non cominciare le manovre militari prima del 4 giugno. Scriverà Mazzini:
” Oudinot ha spinto l’infamia sino a rompere la sua parola d’onore, scritta in mia mano.”
Di fronte al Gianicolo, quella Domenica 3 giugno, cominciava l’era moderna, quelli dei furbi, dei doppiogiochisti, del profitto a scapito di ogni onore, degli “affari”, militari o economici, da conseguire senza guardare in faccia nessuno. Finiva, cominciava a finire, l’epoca della parola data, dell’onore, dell’onestà in guerra e in pace, delle regole comuni, del rispetto anche nel dramma di una guerra oltre che nella vita civile. Lì, di fronte al Gianicolo, mentre centinaia di giovani morivano, in quella Domenica tragica, nei cinque attacchi guidati da Garibaldi, lì tra Porta San Pancrazio e Villa Corsini ( oggi Pamphili), cominciavano a finire uomini come Garibaldi, Mazzini, Mameli, Daverio, Pisacane e tanti altri, cominciava a finire la loro idea di Italia libera, Repubblicana, onesta, fondata sul diritto e la volontà popolare che la Repubblica Romana aveva incarnato e prefigurato per cinque mesi. Cominciava a finire il Risorgimento vero, appena iniziato, in una lenta agonia che si concluderà sull’Aspromonte il 29 agosto del 1862 quando truppe italiane spareranno a Garibaldi che tentava, una volta ancora, di liberare Roma dall’oscurantismo papale. Garibaldi “italiano”, padre della Repubblica Romana, con Mazzini, padre dell’Italia che doveva nascere, con Mazzini, nasce in quell’aprile-giugno 1849. Nasce quella Domenica di Sangue e comincia subito, lentamente a morire. Verrà fuori, lentamente anch’essa, un’altra Italia che, lentamente ancora, metterà fuori gioco Garibaldi ( e Mazzini e altri straordinari protagonisti del vero Risorgimento). Fino a sparargli. Poi lo metteranno fuori gioco ancora dedicandogli strade, piazze, monumenti e quant’altro. Costruiranno il mito, purchè le sue idee, la sua visione dell’Italia, la sua onestà, la sua integrità di uomo non facessero più lezione a tanti altri “volontari” dei decenni successivi fino ad oggi. L’Italia, lentamente, cominciava a nascere nel segno di Oudinot, il fedifrago, l’apparente nemico, mentre l’Italia di Garibaldi e di Mazzini, lentamente, spariva fino alla morte da esiliato di Mazzini, il 10 aprile del 1872, e alla morte da “esiliato in casa” ma “mitizzato” di Garibaldi, a Caprera, il 2 giugno del 1882.
Già, il 2 giugno. Un dio della storia ha voluto che la data della nascita fisica di Garibaldi, a Nizza, fosse così vicina alla data della sua nascita ideale e portatrice di valori per l’Italia che sognò tutta la vita, sul Gianicolo. 2 e 3 giugno. Sul Gianicolo nasce il Garibaldi che dovremmo conoscere e amare e farne nutrimento per la nostra formazione personale, liberandolo da tutte le incrostazioni mitizzanti. Liberandolo dalla statua sul Piazzale, posta nel 1895. Perchè la “statua” di Garibaldi, quella vera, è su quel Colle e nelle sue stradine oggi da passeggio; è in via di Porta San Pancrazio, è in via Aurelia Antica, è a Villa Pamphili, è nell’impeto e nelle grida dei suoi ragazzi coraggiosi che ancora si sentono, se sappiamo sentire; è in quel mese di giugno del ’49 a Roma; è nel drammatico percorso, uscendo dalla Città , che si concluderà con la morte della sua amata Anita, compagna degnissima; è nella spedizione dei Mille, è sull’Aspromonte, è a Bezzecca nel 1866, è a Mentana nel 1867; è nel suo testardo gridare all’Italia nata nel 1861, negli scritti che ci ha lasciato, che non la riconosceva, che doveva costruirsi sui valori, sull’onore e non sulla furbizia e il trasformismo. E’ in quel suo girare per l’Italia, ormai quasi in barella per l’ artrosi deformante, fino a pochi giorni dalla morte per cercare di risvegliare negli Italiani quegli ideali per cui tanti erano caduti con coraggio.
Ma soprattutto Garibaldi è lì, sul Gianicolo, poco fuori di Porta San Pancrazio: basta andare a “vederlo” e ci aspetta per guidarci verso un nuovo Risorgimento da vivere nel nostro impegno civile, quotidiano di Resistenza al degrado democratico e morale generale. Proprio come altri “ragazzi volontari” che dal 1943 vedranno in lui un riferimento assoluto per portare avanti la Liberazione. Uno slogan era scritto su molti muri di Roma, il 9/10 settembre del 1943 durante l’eroica battaglia per la difesa della Città, questa volta dai Tedeschi: “Garibaldi è tornato!”.
Caprera 29 Settembre 1874 Agli Elettori Italiani
L’Italia! …questa Italia, che le altre nazioni tanto invidiano pel suo cielo, per la fertilità delle sue terre, per l’indole svegliata dei suoi abitanti, che in pochi anni conquistarono ciò che fu la aspirazione di secoli, la sua unità. Qual mai ostacolo le si oppone a renderla grande, prospera, rispettata? La sua apatia, la sua immoralità, la discordia. Chi la gettò in questo baratro di sciagure?…Un detto: che il Governo non è un Principio, ma un Partito.
Da questo (discende) corruzione dei pubblicisti, corruzione nei plebisciti, nei collegi elettorali, nella Camera, nei ministeri, nei tribunali, negl’impiegati, nell’esercito, nella marina; corruzione nelle imprese, nei contratti, nelle società, nelle banche, insomma in ogni ramo, in ogno dicastero. A ritornarlo principio sacro per ognuno che diede tanti martiri dovunque, bisogna spazzare questa massa d’intrusi che, come le formiche negli alveari, ne deportano cera e miele e non vi lasciano che putridume e macerie. Vorrei dirvi chi sono, chi furono e donde vengono: ma troppo dovrei intingere la penna nelle sozzure, e mi ripugna. Basta vi dica: ricorrete al loro passato, e se non siete più che ciechi, più che imbecilli, più che codardi, non riconfermateli nel loro seggio. Che sperare da essi? Il pareggio, la difesa dello Stato, la libertà? Illusi che siete! Si, riconfermadoli, preparatevi a nuove sciagure. Il vedeste; i prodi, gl’intemerati (in quest’epoca solenne) gemono nelle prigioni come malfattori; eppure la loro vita fu vita di sacrifici, vita di abnegazione, vita di patimenti.
Dalle “Memorie” di Giuseppe Garibaldi
vedi: 3 giugno 1849: una domenica di sangue.
GARIBALDI. L'ILLUSIONE ITALIANA
GIUSEPPE GARIBALDI. MEMORIE SULLA SUA VITA