intervista a Alain Caillé, a cura di Olivier Nouaillas

Di fronte alle quattro crisi – morale, politica, economica ed ecologica – che minacciano l’umanità, 64 intellettuali venuti dall’altermondialismo, dall’ecologia e dal cristianesimo sociale, propongono un “Manifesto convivialista”. Intervista al suo catalizzatore, il sociologo Alain Caillé.

“Mai l’umanità ha avuto a disposizione tante risorse materiali e tante competenze tecniche e scientifiche (…). Eppure nessuno può credere che questo accumulo di potenza possa proseguire all’infinito, tale quale, in una logica di progresso tecnico immutato, senza ribaltarsi contro se stessa e senza minacciare la sopravvivenza fisica e morale dell’umanità”.

Così iniziano le prime frasi del “Manifesto convivialista”, un libretto di una quarantina di pagine, ma intellettualmente molto ambizioso, ed espressione di una sensazione di urgenza. All’origine troviamo la volontà di Alain Caillé, sociologo fondatore del MAUSS (Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali), che è riuscito a far lavorare insieme 64 ricercatori e professori universitari venuti da tutte le parti del mondo, di sensibilità altermondialista, ecologista o provenienti dal cristianesimo sociale (Edgar Morin, Susan George, Patrick Viveret, Serge Latouche, Elena Lassida, Jean-Baptiste de Foucauld, Jean Pierre Dupuy, Jean Claude Guillebaud…). Il risultato è l’elaborazione di un nuovo “fondo” dottrinale filosofico, il convivialismo, incaricato di rispondere alle quattro grandi crisi – morale, politica, economica ed ecologica – che stanno vivendo le nostre società all’inizio del XXI secolo. Prima della sua presentazione in una conferenza stampa prevista a Parigi per il 19 giugno, Alain Caillé, in anteprima, ha accettato di commentarne per noi le grandi linee in una lunga intervista concessa a La Vie, a casa sua, in un appartamento pieno di libri a due passi dalla stazione Montparnasse.

Qual è la genesi del Manifesto convivialista?

Il punto di partenza è un convegno organizzato nel luglio 2011 a Tokyo riguardante l’eredità di Ivan Illich. C’erano tra l’altro tre invitati francesi: Serge Latouche, promotore della decrescita, Patrick Viveret, che ha lavorato molto sugli indicatori di ricchezza, ed io. Con mia grande sorpresa, mentre ho molte reticenze sui primi due concetti – in particolare sulla decrescita, che è una parola inutilmente intristente – abbiamo saputo superare le nostre divergenze intellettuali per trovarci d’accordo su una constatazione: non si potrà più basare il progetto democratico su una prospettiva di crescita infinita. L’umanità non vi sopravviverà. Il problema che allora si pone è trovare un nuovo concetto ed è così che, malgrado le nostre imperfezioni, si è imposta la parola convivialismo. Al mio ritorno in Francia, ho deciso di scrivere un libro “Per un manifesto del convivialismo”, citando delle persone – una quarantina di nomi che desidererei associarvi. E con mia grande sorpresa hanno tutti accettato di partecipare ai nostri lavori, senza alcuno scontro narcisistico. Come se ci fosse una sensazione di urgenza di fronte allo stato del mondo. Poi con delle riunioni di lavoro a Parigi e con scambi via internet con altri amici negli Stati Uniti, in Giappone, in Messico, siamo giunti a questo manifesto, un breve testo di 40 pagine, pubblicato dalle edizioni “Le Bord de l’eau”, che presentiamo a Parigi il 19 giugno, durante una conferenza stampa. Sono abbastanza orgoglioso di questo risultato perché credo che abbiamo saputo mantenere un equilibrio tra due “scogli” possibili: il catastrofismo (la decrescita) e il versante irenico (l’amore universale).

Può darci una definizione semplice di convivialismo?

La parola può far sorgere problemi. Del resto, quando ci siamo riuniti, i due terzi dei partecipanti hanno detto: “D’accordo, ma la parola non va bene”. Per alcuni perché vi vedevano dentro la parola “convivialità”, per altri perché c’era un “ismo”. Ma siccome non abbiamo trovato niente di meglio, siamo tornati al punto di partenza. Io tenevo molto all’ “ismo”, per una ragione fondamentale: abbiamo 36 000 soluzioni di politiche economiche, finanziarie, ecologiche ma ciò che manca, a tutti, oggi, è un fondo dottrinale di filosofia politica comune. E per rappresentare questo, abbiamo bisogno di una parola in “ismo”, che posso federare. Da qui deriva questa definizione del convivialismo che proponiamo, secondo ilavori di Marcel Mauss: come vivere insieme opponendosi al massacro? È un problema preliminare, centrale in tutte le società umane, ed è indispensabile porselo prima del problema relativo al migliore regime politico (monarchia, repubblica, impero, socialismo, ecc.), rispetto al quale ciascuno può avere le sue preferenze.

La vostra constatazione dello stato del mondo è preoccupante. Evocate in particolare delle “dinamiche mortifere”, e addirittura che “si pone il problema della sopravvivenza fisica e morale dell’umanità”. Perché un simile pessimismo?

C’era una enorme preoccupazione nel nostro gruppo. E benché io abbia anche ottimismo, bisogna prendere sul serio il versante del pessimismo. Almeno alla maniera di Jean Pierre Dupuy che afferma che “il solo modo per evitare la catastrofe, è essere sicuri che avverrà”. Quando si vedono i rischi nucleari dopo Cernobil e Fukushima, i rischi di esaurimento delle risorse naturali o anche le minacce di enormi irregolarità climatiche, non si può che essere preoccupati.

Delle quattro crisi di cui parla il Manifesto – la crisi morale, la crisi politica, la crisi economica e la crisi ecologica – quale le sembra la più grave?

La più grave è certamente la crisi morale, perché la sua soluzione condiziona tutte le altre. Prendiamo le discussioni sullo sviluppo sostenibile, si possono immaginare moltissimi tipi di soluzioni tecniche, ma se non si hanno uomini ed istituzioni credibili per metterle in atto, non si farà nulla. Quindi la condizione preliminare per un vero sviluppo sostenibile è una democrazia sostenibile che ha bisogno anch’essa di una base etica sostenibile. È una condizione affinché gli uomini e le donne politici non precipitino nell’hubris, nella “dismisura”, nella mancanza di limiti. E la traduzione concreta e visibile di questa mancanza di limiti è la corruzione, sia finanziaria, sia tramite il potere. Scoppia ovunque, in tutto il mondo. Lo si vede in Francia con il moltiplicarsi degli scandali (Cahuzac, Tapie, Guéant), che riguardano sia la destra che la sinistra.

Come ci si può immaginare di poter salvare la democrazia, se, da un lato, non c’è più crescita economica e, dall’altro, tutte le classi dominanti appaiono corrotte?

La corruzione è strettamente legata ai paradisi fiscali e ad un’economia criminali, talvolta costituita da vere e proprie mafie, come in Medio Oriente, in Asia e in Russia.

Al contrario, voi parlate di una molteplicità di iniziative alternative – da slow food alla sobrietà volontaria, passando per il care e il commercio equo. Ma queste iniziative pesano abbastanza di fronte ad un sistema economico globalizzato?

Tutte queste iniziative si presentano in ordine sparso e non arrivano a dare un nome a ciò che hanno in comune. Ora, l’ipotesi centrale del Manifesto è che non arriveremo a capovolgere un rapporto di forze con un neoliberalismo basato sulla rendita o sulla speculazione, se non si trova una forma di unità. I vertici altermondialisti avevano questo scopo ma non ci sono riusciti. Infatti sono rimasti ad una giustapposizione di visioni etico-ideologiche degli uni e degli altri, e di conseguenza questo ha portato ad un patchwork insufficiente. In effetti, il problema principale che si pone a noi è un problema di filosofia politica. Noi siamo gli eredi delle grandi filosofie politiche della modernità: il liberalismo e il socialismo, con i loro derivati che sono l’anarchismo e il comunismo. Queste quattro dottrine non sono più all’altezza dei problemi attuali. Perché tutte e quattro si basano su una visione erronea dell’uomo, visto come un “homo economicus”. Le quattro dottrine avevano infatti in comune l’idea che il problema principale dell’umanità fosse la mancanza di mezzi per soddisfare i bisogni materiali. Che l’uomo è un essere di bisogni mosso dalla rarità e che, quindi, la soluzione primaria è la crescita. Ora, questa visione antropologica è sbagliata – gli uomini non sono esseri di bisogni ma di desideri, e la soluzione proposta è diventata impossibile, anzi pericolosa: la crescita regolare, permanente, del PIL non può più essere una soluzione. Perché in primo luogo non c’è già più nei paesi ricchi – non conosceremo mai più il tasso di crescita dei “trent’anni gloriosi” [ndr. del dopoguerra] – e in secondo luogo, nei paesi emergenti essa rallenterà e non sarà più ecologicamente sostenibile.

Quali possono essere i contorni di una “alternativa al modo di esistenza attuale”? Voi accennate a qualche pista, come l’instaurazione di un reddito minimo o la rilocalizzazione delle produzioni nei territori…

La soluzione deve essere cercata orientandosi verso quella vecchia idea degli economisti inglesi del XIX secolo, come John Stuart Mill, cioè che le società tendono verso uno stato stazionario. Ma oggi si tratterebbe, con tutte le invenzioni tecnologiche di cui godiamo (nell’informatica, nella medicina, ecc.) di uno stato stazionario dinamico, una sorta di “prosperità senza crescita”, un termine che prendo “in prestito” da Tim Jackson, un altro economista inglese, contemporaneo. Questa società stazionaria dinamica dovrà essere rilocalizzata, riterritorializzata, pur restando aperta al mondo intero. C’è una riabilitazione da fare del qui e adesso, perché non bisogna che tutto venga comandato a 20 000 chilometri da dove si vive. E se si vuole mettere al centro del progetto la lotta contro la mancanza di limiti e la corruzione, questo implica anche altre due misure semplici da capire, ma più difficili da realizzare: un reddito minimo e un reddito massimo. Per noi è illegittima sia l’estrema miseria sia l’estrema ricchezza. Infatti il Manifesto convivialista si àncora in una forte volontà di giustizia sociale.

 

in   “www.lavie.fr”   del 17 giugno 2013

vedi: Cambiare totalmente sistema

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