intervista a Paolo Flores d’Arcais a cura di Silvia Truzzi
La domanda è sconveniente. “Infatti – spiega Paolo Flores d’Arcais nel suo La democrazia ha bisogno di Dio? Falso! – non echeggia mai nei ricorrenti dibattiti su religione e politica, quasi che fosse temerario anche solo pensarla e blasfemo formularla”. La risposta del direttore di Micromega è un deciso no. Che si fonda su un evangelico invito diMatteo: “Il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”.
Perché è necessario chiedersi se la democrazia ha bisogno di un presupposto religioso?
Per rovesciare l’idea corrente e dominante secondo cui la democrazia in crisi ha bisogno di ricorrere alla religione per non rischiare il tracollo. Un’idea che non mi avrebbe mai preoccupato se l’avessi ritrovata solo in Wojtyla, Ratzinger, Tariq Ramadan. Ma siccome costituisce, da almeno una decina d’anni, il filo conduttore di tutte le riflessioni filosofico-politiche di Jürgen Habermas, a questo punto mi pare una tesi molto significativa e molto preoccupante per il mondo laico. Di qui la necessità di confutarla.
È più temibile ora, in uno scenario di degrado istituzionale e di crisi economica?
La questione diventa sempre più urgente perché la crisi delle democrazie occidentali è sempre più evidente. Ed è una crisi duplice: riguarda sia i sistemi politici, cioè la distanza sempre più crescente tra i cittadini e i loro rappresentanti, sia il piano socio-economico. Mi riferisco al divario sempre più abissale tra quelli che hanno poco e quelli che hanno molto: esplodono da un lato i privilegi e dall’altro lato le povertà. A fronte di questa crisi, si moltiplicano, anche in ambiti laici, i tentativi di ricorrere alla religione come fondamento di principi di solidarietà che la laicità non sarebbe più in grado di produrre. Per questo, solo la religione ci potrebbe salvare.
È plausibile oggi negare alla religione un ruolo pubblico tout court?
Dipende cosa vuol dire. Se la sua è un’affermazione, allora ahimè non possiamo che notare come le religioni abbiano un ruolo pubblico sempre crescente. Se si tratta di dare un giudizio di valore e di compatibilità, la tesi del mio testo è esattamente questa. Cioè: va negato radicalmente e in modo sistematico ogni ruolo pubblico delle religioni nella democrazia, perché qualsiasi ruolo pubblico minaccia e mette a repentaglio elementi essenziali del sistema democratico.
La religione s’individua anche attraverso i sistemi valoriali che indica. E in un momento di vuoto dell’etica diventa un’àncora. Lei obietta: non è l’unica etica possibile.
Dico di più: non solo c’è un sistema di valori laico-repubblicano, ma cerco di dimostrare che solo questo insieme di valori può essere l’orizzonte comune di una convivenza democratica. Mentre il ricorso alla religione, porta a danni disastrosi, sia perché rende i conflitti non negoziabili, sia perché colpisce alla radice le libertà dei singoli.
Qualche esempio?
Tutte le questioni bioetiche hanno un peso sempre maggiore nella nostra vita quotidiana. L’altro giorno si è suicidato Carlo Lizzani. Come ha ricordato nel suo biglietto d’addio voleva “staccare la chiave” insieme alla moglie. Serenamente, attraverso il suicidio assistito. Ma non ha potuto: in Italia il suicidio assistito è punito con dodici anni di carcere. Perché? La vita di Lizzani appartiene a Lizzani. Il suicidio non è un reato e nemmeno il tentativo di suicidio è sanzionato. Perché chi mi aiuta rischia dodici anni di carcere? Perché un sistema di valori religioso vuole imporre la sua particolare morale come morale dello Stato. Lo stesso vale per divorzio, aborto, matrimonio tra persone dello stesso sesso, ricerca sulle staminali. Il credente è democratico solo a patto che sappia dire: secondo la legge dello Stato ciascuno è libero. E io, in quanto cittadino e benché cattolico, mi batterò per questa libertà di tutti. Poi io, in quanto cattolico, questi atti non li compirò. Questo significa mantenere la religione nell’ambito privato. Alcuni cattolici questo discorso lo fecero, ai tempi del referendum sul divorzio. Ma furono colpiti dagli anatemi delle gerarchie ecclesiastiche.
Lei scrive che il vero banco di prova tra credenti e non credenti è la scuola pubblica.
Venticinque anni fa scrissi che si accettavano le pretese della Chiesa cattolica in fatto di sistema scolastico, prima o poi si sarebbero dovute accettare pretese analoghe da parte di scuole islamiche. Naturalmente queste considerazioni nemmeno furono prese in considerazione, perché il problema in Italia sembrava riguardare solo la Chiesa cattolica. Oggi il tema è all’ordine del giorno in tutta Europa, perché se esiste uno spazio per le scuole confessionali allora deve valere per tutti. E quindi si darà luogo a una ghettizzazione del sistema educativo. Ma il sistema educativo non è fatto solo per trasmettere conoscenze tecniche o nozioni, è fatto anche per dotare tutti bambini che diventano adolescenti e poi adulti di strumenti critici in grado di renderli cittadini consapevoli e liberi. Dare strumenti critici è incompatibile con ogni visione confessionale del mondo e delle società. Ne abbiamo le prove: è la Cei che ha bloccato l’insegnamento nelle scuole elementari del darwinismo, un progetto che portava l’autorevole firma di Rita Levi Montalcini.
Che impressione le ha fatto il dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari?
Complimenti a Scalfari per il colpo giornalistico. Quanto ai contenuti che il Papa espone sono assolutamente quelli tradizionali, ma il tono rappresenta una vera inversione a “u” rispetto al pontificato di Ratzinger. Ed è questo che potrebbe avere un grande effetto.
il Fatto Quotidiano 10 ottobre 2013