VARSAVIA-ADISTA. Non fa nemmeno più notizia il fatto che, ancora una volta, la comunità internazionale si sia dimostrata incapace di prendere decisioni in materia di cambiamento climatico. Non è bastato il tifone Haiyan che ha devastato le Filippine (e tantomeno i tornado in Midwest e l’alluvione in Sardegna) né l’ultimo allarme lanciato dal mondo scientifico – quello contenuto nell’ultimo rapporto dell’Ipcc (l’Intergovernamental Panel on Climate Change) – a salvare dall’ennesimo fallimento la 19a Conferenza delle Parti (Cop 19) della Unfccc, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, svoltasi a Varsavia dall’11 al 23 novembre nel silenzio pressoché totale della grande stampa italiana.
Cominciati con l’annuncio di uno sciopero della fame da parte del principale negoziatore delle Filippine, Yeb Sano, come forma di pressione sulle diverse delegazioni, i lavori della Conferenza si sono conclusi con un nuovo, e ampiamente previsto, rinvio: unico risultato, la definizione di una road map in vista della Conferenza di Parigi del dicembre del 2015, quando i 195 Paesi aderenti all’Unfccc saranno chiamati a sottoscrivere un nuovo piano globale di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra che, tuttavia, dovrebbe entrare in vigore solo nel 2020. Inoltre, se il nuovo accordo dovrebbe contenere disposizioni vincolanti per tutti i Paesi, sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”, resta però ancora completamente da chiarire in che modo suddividere i tagli alle emissioni, a fronte del consueto scaricabarile tra Paesi industrializzati, su cui indubbiamente ricade la responsabilità di aver condotto il pianeta al punto in cui si trova, e potenze emergenti, la cui impetuosa crescita del livello di emissioni rischia oggi di produrre un incontrollato aumento della temperatura mondiale: pesante, in tal senso, il rifiuto opposto dai Paesi più industrializzati alla proposta, sostenuta con vigore dal Brasile, dalla Cina e da tutta la coalizione dei Paesi del Sud del mondo nota come G77 (per quanto ne facciano parte 135 Paesi), di definire gli impegni di riduzione tenendo conto anche del calcolo (di cui si assumerebbe la responsabilità l’Ipcc) delle emissioni prodotte da ogni Paese dall’inizio della Rivoluzione industriale (di modo che gli inquinatori storici come Stati Uniti e Paesi europei si troverebbero a sostenere tagli maggiori di quelli di inquinatori più recenti come Cina e Brasile).
Al passo del gambero
Ed è così che, in base al testo approvato a Varsavia, all’accordo di Parigi si arriverà appena con i “contributi” (termine massimamente generico che è andato a sostituire il già più vincolante “impegni”) determinati a livello nazionale da parte di tutti i Paesi: proposte di tagli di emissioni da annunciare entro il primo trimestre del 2015. E, come se non bastasse l’assenza di risultati, si è registrato persino qualche passo indietro: il governo giapponese, tra lo sconforto generale, ha annunciato un drastico ridimensionamento dei suoi precedenti impegni di riduzione, dal 25% al 3,8% fino al 2020; il nuovo governo conservatore australiano si è impegnato entro quella data a ridurre le proprie emissioni appena del 5%, adoperandosi inoltre a smontare la propria legislazione nazionale sul clima; e il governo canadese è determinato a seguire la stessa strada.
Le cose non vanno meglio neppure sul fronte delle potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, divenuta leader mondiale nella produzione di CO2 (ma con poco più di 7 tonnellate procapite, le stesse dell’Ue, a fronte delle oltre 17 tonnellate procapite all’anno di CO2 degli Stati Uniti): Liu Zhenmin, viceministro degli Esteri cinese, ha tenuto a sottolineare come la Cina non abbia ancora ultimato il suo processo di industrializzazione e, pertanto, al di là del suo impegno a favore di una maggiore efficienza energetica, non potrà evitare un aumento delle emissioni climalteranti. E un altro motivo di delusione è venuto dal governo brasiliano – fresco di riforma del Codice forestale secondo i desiderata dell’agrobusiness – che ha confermato una crescita del tasso di deforestazione addirittura del 23% rispetto all’anno precedente. Senza contare l’inevitabile aumento di emissioni a cui condurrà l’avvio, già il prossimo anno, dello sfruttamento del cosiddetto pre-sal, un enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane, a una profondità tra i 6mila e gli 8mila metri.
Nulla di fatto anche per quanto riguarda chi e come finanzierà il Fondo verde per il clima stabilito già nella Conferenza di Cancun del 2010, che prevede fino a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 a favore delle nazioni più povere: se a Varsavia è stata decisa la creazione di un Meccanismo internazionale per aiutare i Paesi più poveri – quelli che pagheranno (e stanno già pagando) di più pur avendo contaminato (molto) meno – a far fronte alle emergenze provocate da eventi climatici estremi, i Paesi ricchi non hanno però voluto assumere nuovi impegni economici.
Non sorprende allora come, in polemica con il criminale immobilismo della comunità internazionale, i movimenti sociali, le ong, le associazioni ambientaliste (dal Wwf a Greenpeace, da Friends of the Earth a Oxfam, da Legambiente alla Cgil) abbiano deciso, per la prima volta nella storia dei negoziati sul clima, di abbandonare i lavori della conferenza, indossando magliette con la scritta “Polluters talk, we walk” (“Qui parlano gli inquinatori, noi ce ne andiamo”). E sono state proprio le industrie inquinanti quelle più soddisfatte dei risultati, considerando l’ampio spazio concesso, durante la conferenza di Varsavia, alle prospettive di crescita del carbone, principale causa delle emissioni climalteranti del pianeta, e dello shale gas o gas di scisto, una delle più contestate tecniche di estrazione degli idrocarburi. Grande l’impegno prodigato, in questa direzione, dalla Polonia, decimo consumatore al mondo di carbone (da cui proviene circa il 90% della sua elettricità), nonché il Paese della Ue più ostile a ogni assunzione da parte dell’Europa di impegni di riduzione delle emissioni (significativo il comportamento di Solidarność che, ha sottolineato Alberto Zoratti su Comune-info, «combatte ogni politica “climate-friendly” in nome della difesa dell’occupazione, mostrando una consapevolezza quasi ottocentesca sui temi della transizione ecologica»). Non a caso, il 18 e il 19 novembre, all’inizio della seconda e decisiva settimana dei negoziati, si è svolta sotto gli auspici del governo polacco la due giorni della World Coal Association, l’Associazione mondiale degli operatori del carbone, a cui ha preso parte nientedimeno che la stessa segretaria esecutiva della Convenzione Onu sul clima, Christiana Figueres. Ma il governo polacco è andato anche oltre, silurando, in pieno svolgimento della Conferenza, il ministro dell’Ambiente Marcin Korolec, nonché presidente della Cop, sostituendolo con uno strenuo sostenitore dello shale gas, Maciej Grabowski.
E le emissioni crescono
In questo quadro, le comunità cristiane presenti a Varsavia hanno accompagnato i lavori della Conferenza con preghiere, esortazioni alle autorità e un digiuno a favore di tutte le popolazioni colpite da eventi climatici estremi, promosso dalla Federazione Luterana Mondiale, a cui si sono uniti i rappresentanti del Consiglio Ecumenico delle Chiese e anche delegati non cristiani. Ai delegati dei 195 Paesi riuniti a Varsavia è giunto anche il messaggio del patriarca ortodosso di Gerusalemme Bartolomeo, il quale ha esortato con forza i governi ad «affrontare immediatamente la preoccupante e crescente tendenza al cambiamento del clima al fine di evitare effetti catastrofici», osservando che «non c’è distinzione tra la preoccupazione per il benessere degli esseri umani e la preoccupazione per la tutela del creato», in quanto «il modo in cui ci relazioniamo con la natura come creazione riflette direttamente il modo in cui crediamo in Dio come creatore di tutte le cose». E di «imperativo etico» ha parlato – durante una conferenza promossa a Varsavia dal Cisde (Gruppo Cattolico Internazionale per lo Sviluppo e la Solidarietà) e dalla Caritas Internationalis, sul tema “Gli attori religiosi impegnati per la giustizia climatica”, il nunzio apostolico a Varsavia – l’arcivescovo Celestino Migliore, il quale ha posto l’accento sulla necessità di non «prendere in considerazione solo le colpe, le responsabilità o le omissioni accumulate nel passato, ma piuttosto la capacità reale di ogni Paese, di ogni economia attuale di passare all’azione», invitando a seguire l’esempio dei «grandi santi del passato, come Benedetto e Francesco», come pure dei «papi di oggi», i quali, ha detto, «non parlano di una natura astratta, ma di creazione: dono di Dio da accogliere, coltivare ed elevare», e «non parlano di lotta, né di difesa, che sempre suppone un nemico» (il quale, ha spiegato, una volta «era la natura imprevedibile e talora crudele», mentre oggi «sarebbe l’uomo che sfrutta e inquina»), ma «parlano di custodire e promuovere» (Radiogiornale vaticano, 18/11).
Quanto efficaci siano tali esortazioni, tanto più se accompagnate dalla rinuncia a parlare di “lotta” e di “difesa”, di “colpe” e di “responsabilità”, lo indicano alla perfezione i dati diffusi dal mondo scientifico: secondo, per esempio, il rapporto del Global Carbon Project, le emissioni globali di CO2 derivanti dalla combustione di carbone, petrolio e gas hanno registrato quest’anno una crescita record di 36 miliardi di tonnellate, con un aumento del 2,1% rispetto al 2012 (e del 61% rispetto al 1990). Di questo passo, dopo aver sfondato il muro delle 400 parti per milione (ppm) di anidride carbonica nell’atmosfera (a fronte delle 280 dell’epoca preindustriale), si arriverà, alla fine del secolo, a 800 ppm, ben oltre il tetto massimo di sicurezza, già altissimo, fissato dagli scienziati a 421 parti per milione.
Claudia Fanti in Adista Notizie n. 43, 2 dicembre 2013