NEL Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali si afferma che l’Unione europea «pone la persona al centro della sua azione». Parlando di “persona”, non si è evocata una astrazione. Al contrario. Con quella parola ci si voleva allontanare proprio dalle astrazioni, consegnate a termini come soggetto o individuo, e si intendeva dare rilievo alla vita materiale, alle condizioni concrete dell’esistere, ad un “costituzionalismo dei bisogni” fondato sull’inviolabile dignità di tutti e ciascuno. Ma nel Mediterraneo ormai quasi ogni giorno muoiono centinaia di persone che all’Europa guardano con speranza, fuggendo dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria. I numeri impressionano, ma non sollecitano l’adempimento della promessa scritta nel Preambolo della Carta dei diritti, della quale Juncker ha parlato come di un riferimento obbligato per l’attività dell’Unione europea.

Questa disattenzione fa sì che l’Unione stia diventando complice di un “omicidio di massa”, come giustamente l’Onu ha definito questa terribile e infinita vicenda. Siamo di fronte ad uno degli effetti, niente affatto “collaterali”, della riduzione della politica a calcolo economico e finanziario, alimentando gli egoismi nazionali e spegnendo ogni spirito di solidarietà. Le parole contano, dovrebbero risuonare con forza, per dare senso ad una Europa che si sta spegnendo proprio perché rinnega se stessa, il suo essere storicamente terra di diritti. Dalla Presidenza italiana dell’Unione europea, anche per la responsabilità assunta in politica estera all’interno della Commissione (sia pure non ancora formalizzata), dovremmo allora attenderci parole forti, liberate da ogni convenienza, pronunciate dallo stesso presidente Renzi che oggi può e deve parlare a nome dell’Europa. Non è tempo di attese, e anche le mosse simboliche contano, soprattutto se poi riescono ad essere accompagnate da proposte concrete. Ve ne sono già molte, e la politica ufficiale dovrebbe prenderle in considerazione, riflettendo sui visti umanitari, sullo status di rifugiato comunitario, facendo un “investimento di cittadinanza”, ricorrendo a “bond” europei per la cittadinanza (ne ha parlato Mauro Magatti).

L’Europa non impallidisce soltanto in questa dimensione che ha davvero assunto il carattere della tragedia. Vi sono le infinite tragedie della vita quotidiana, moltiplicate in questi anni di crisi e che sono espresse da parole divenute terribilmente familiari: disoccupazione, perdita dei diritti sociali, diseguaglianza. Di nuovo l’Unione europea allontana da sé la persona con i suoi diritti, contraddice le parole che aprono la Carta — «la dignità umana è inviolabile » — perché si nega quel diritto a «un’esistenza dignitosa » di cui parla l’articolo 34 della stessa Carta. A quell’abbozzo di costituzione europea affidato al Trattato di Lisbona e alla Carta dei diritti fondamentali è stata in questi anni contrapposta una sorta di “controcostituzione”, che ha il suo cuore nel “fiscal compact” e che ha portato ad una indebita amputazione dell’ordine giuridico europeo proprio attraverso la sostanziale cancellazione della Carta dei diritti, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Nel momento in cui giustamente si contesta la pericolosa riduzione dell’Unione ad una pura logica contabile, proprio la rivendicazione dell’importanza dei diritti è essenziale per muoversi in un orizzonte più largo. Cominciamo a sfruttare i segnali che vengono dalla stessa Unione, dalla sua Corte di giustizia, ad esempio, che con una sentenza del 13 maggio ha affermato che i diritti fondamentali, in via di principio, prevalgono sul mero interesse economico.

La ricostruzione di una cultura europea di nuovo sensibile ai diritti permetterebbe di uscire dalla spersonalizzazione e dalla assuefazione indotte dalle cifre. Registriamo le centinaia di morti in mare, e le spostiamo nelle pagine interne dei giornali o le facciamo scendere nell’ordine delle notizie televisive. Registriamo i dati statistici sulla disoccupazione crescente, sulla povertà assoluta e relativa, come se fossero l’effetto di uno tsunami al quale non ci si può opporre. Una attenzione vera per i diritti ci obbligherebbe ad arrivare alle persone che stanno dietro quei numeri, a svegliarci da un inquietante e ormai protratto sonno della ragione. Ipnotizzati dalle cifre, corriamo il maggiore dei pericoli: il ritorno all’astrazione dalle concrete condizioni del vivere, che ci spinge verso la progressiva riduzione delle persone ad oggetti del caluna colo economico, dunque “non persone”. E come si può parlare di democrazia quando l’azione politica si separa dalle persone e dai loro diritti?

Acuta in Europa, la questione si fa acutissima in Italia. Ancora ieri il rapporto Bertelsmann ha impietosamente confermato il nostro continuo precipitare nell’ingiustizia sociale, con processi di esclusione che mettono concretamente a rischio la coesione sociale. Si può davvero ritenere che una ulteriore riduzione dei diritti sociali, che troppi insistentemente continuano ad invocare, sia la via d’uscita dalle difficoltà che stiamo vivendo? O dobbiamo prendere le mosse proprio dal riferimento alla Repubblica «fondata sul lavoro», e da ciò che questo significa oggi in termini di diritti?

Bisogna aggiungere che, da decenni ormai, l’intera cultura dei diritti ha conosciuto in Italia inquietante eclisse. Nella deprecata e presunta inefficiente prima Repubblica, gli anni Settanta furono una straordinaria stagione dei diritti, che mutarono nel profondo la società italiana e l’organizzazione istituzionale. Divorzio e aborto, statuto dei lavoratori e riforma del diritto di famiglia, processo del lavoro e riforma carceraria, attuazione delle regioni a statuto ordinario e introduzione del referendum, nuove norme sulla carcerazione preventiva e abolizione dei manicomi sono lì a testimoniare che una politica dei diritti è possibile nella linea segnata dalla Costituzione. Questa non è una rievocazione nostalgica, ma un invito a riflettere su quali siano state le spinte propulsive che resero possibile tutto questo. Sicuramente il riferimento ai principi e ai diritti costituzionali. Sicuramente la capacità delle forze politiche di guardare alle dinamiche sociali senza pretese di subordinarle a convenienze e strumentalizzazioni (divorzio e aborto furono approvati in anni di forte potere della Dc). Sicuramente l’esistenza di canali di comunicazione tra cultura e politica, che si alimentarono reciprocamente, produssero innovazione non di facciata, ma veri strumenti istituzionali di cambiamento.

Negli ultimi decenni chiusure ideologiche e regressione culturale hanno determinato un divorzio tra politica e società proprio sul terreno dei diritti. Ne vediamo i segni ancora in questi giorni. Dopo che le regioni avevano concordato alcune linee guida sulla fecondazione eterologa, coerentemente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale cancellando un altro pezzo illegittimo della straideologica legge in materia, ecco la Regione Lombardia legare l’accesso a questa tecnica di fecondazione a costi che negano l’eguaglianza tra le persone, richiamata proprio dalla Corte costituzionale. Riprenderà il “turismo procreativo”, questa volta da regione a regione?

Questo caso ci ricorda come in questi anni difficili, e di silenzio della politica, i giudici siano stati i veri “custodi dei diritti”, non assumendo un ruolo di supplenza, ma di attuazione della legalità costituzionale, com’è loro dovere, tenendoci anche al riparo da prevaricazioni politiche (pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha definitivamente accertato l’illegittimità dell’intervento ministeriale che tentò di impedire il trasferimento in una clinica di Eluana Englaro).

Oggi sarebbe il tempo del ritorno della buona politica, che guardi alla società senza filtri ideologici e convenienze di maggioranza, e così dia segnali chiari contro l’omofobia; riconosca senza alcun pregiudizio le unioni tra le persone dello stesso sesso, che i comuni stanno affrontando con la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero; riconosca il diritto di decidere sul morire. Sono questi i modi in cui la società interroga la politica e, poiché troppe volte sentiamo dire “ce lo chiede l’Europa”, proprio dall’Europa e dal mondo ci vengono segnali sempre più univoci che, in materia di diritti, dovremmo cominciare a seguire, riconoscendo in essi anche quello che, con lungimiranza, aveva già indicato la Costituzione.

Stefano Rodotà     La Repubblica  19/09/2014.

 

vedi:   Gli africani non possono più partire

Quel diritto diseguale penetrato nell'ordinamento

I migranti e l’ipocrisia dell’accoglienza


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