Jürgen Habermas: andare oltre il fondamentalismo illuminista “aprendo” alle comunità religiose.
La mia critica della ragione laicista.
Jürgen Habermas (1929), filosofo tedesco, in Repubblica 27.3.15
PER potersi definire post-secolare una società deve prima essere stata secolare. Dunque l’espressione può soltanto riferirsi alle società europee, oppure a nazioni come Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cui cittadini hanno visto continuamente (talora, dopo la seconda guerra mondiale, anche drasticamente) allentarsi i loro vincoli religiosi. In questi paesi la coscienza di vivere in una società secolarizzata si è diffusa in maniera più o meno generale. Possiamo perciò definire la coscienza pubblica europea come “post-secolare” nel senso che, almeno per il momento, essa accetta il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato. Finora ho adottato la prospettiva esterna dell’osservatore sociologico. Ma se noi adottiamo la prospettiva del partecipante, allora la domanda diventa un’altra, di tipo normativo. Come ci dobbiamo intendere in quanto membri di una società post-secolare?
Però, prima di affrontare il nucleo filosofico, lasciatemi disegnare più chiaramente il punto di partenza da tutti accettato: il principio della separazione della chiesa dallo stato. Lo stato costituzionale moderno può garantire la libertà religiosa solo a patto che i suoi cittadini cessino di chiudersi a riccio dentro gli orizzonti integralisti delle rispettive comunità religiose. Le subculture devono lasciare liberi i loro seguaci di darsi reciproco riconoscimento nella società civile quali cittadini dello stato. Questa nuova costellazione — tra “stato democratico”, “società civile” e “autonomia delle subculture” — diventa ora la chiave per capire le due “ragioni” che oggi, invece di mettersi d’accordo, si stanno facendo irrazionalmente la guerra. Infatti l’universalismo dell’illuminismo politico non dovrebbe affatto essere in contraddizione con le sensibilità particolari di un beninteso multiculturalismo.
Ma ciò che in questo contesto vorrei soprattutto sottolineare è una idea di società inclusoria in cui possano armonizzare tra loro l’eguaglianza politica e la differenza culturale. Sennonché i partiti oggi in lotta non vedono affatto questa complementarità. Il partito dei multiculturalisti, nel proteggere le identità collettive, accusa la controparte di “fondamentalismo illuministico”, laddove i secolaristi insistono nell’integrare le minoranze alla cultura politica già esistente, accusando la controparte di “culturalismo anti-illuministico”. I cosiddetti multiculturalisti vorrebbero sviluppare e differenziare il sistema giuridico per adeguarlo alle richieste di “pari trattamento” avanzate dalle minoranze religiose. Essi denunciano il rischio dell’assimilazione forzata e dello sradicamento. Sul versante opposto i secolaristi lottano per una inclusione colorblind di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro origine culturale e dalla loro appartenenza religiosa. Da questa prospettiva laicistica, la religione dovrebbe restare una faccenda esclusivamente privata.
La versione radicale del multiculturalismo poggia spesso sulla convinzione — del tutto sbagliata — che visioni del mondo, «discorsi» e sistemi teorici, siano tra loro incommensurabili. In questa concezione “contestualistica” le varie culture si presentano come universi semanticamente chiusi, corredate da criteri di razionalità/verità tra loro imparagonabili. Ogni cultura sarebbe una totalità semanticamente sigillata, cui è preclusa ogni intesa discorsiva con le altre. In base a queste premesse, ogni pretesa universalistica di verità — per es. quella avanzata dalla democrazia e dai diritti umani — è soltanto una maschera ideologica che serve a nascondere l’imperialismo della cultura dominante.
Va però detto che anche nello zelo eccessivo dei guardiani dell’ortodossia illuministica si celano premesse filosofiche alquanto discutibili. Nella loro prospettiva antireligiosa, la religione dovrebbe completamente ritrarsi dalla sfera pubblica e restringersi alla sola sfera privata, in quanto sarebbe una figura storicamente superata dello spirito. Questa del laicismo radicale è una tesi filosofica, completamente indipendente dal fatto empirico che le religioni possano offrire contributi importanti alla formazione politica dell’opinione e della volontà. Dal punto di vista dei secolaristi, i contenuti del pensiero religioso risultano in ogni caso scientificamente screditati e irricevibili.
Qui vorrei fare una distinzione tra laico e laicista, tra secolare e secolarista. La persona laica, o non credente, si comporta con agnostica indifferenza nei confronti delle pretese religiose di validità. I laicisti, invece, verso quelle dottrine religiose che (seppure scientificamente infondate) hanno grande rilevanza nell’opinione pubblica assumono un atteggiamento polemico. Oggi il secolarismo si appoggia spesso a un naturalismo “hard”, giustificato in termini scientistici. Mi chiedo cioè se — ai fini dell’autocomprensione normativa di una società post- secolare — una mentalità laicista ipoteticamente generalizzata non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile che una deriva fondamentalista dei credenti.
In realtà, un processo di apprendimento andrebbe prescritto non solo al tradizionalismo religioso ma anche alla controparte secolarizzata. Certo l’autorità statale, cui sono riservati gli strumenti della violenza legittima, non dovrà mai lasciarsi trascinare nelle lotte religiose, per non correre il rischio di farsi organo esecutivo di una maggioranza religiosa che imbavaglia l’opposizione. Tutte le norme dello stato costituzionale devono essere formulate e giustificate in un linguaggio accessibile a tutti. Però la neutralità ideologica dello stato non proibisce di ammettere contenuti religiosi nella sfera pubblica politica. Due ordini di motivi appoggiano questa apertura liberale. In primo luogo, anche quelli che non sappiano, o non vogliano, scindere i loro vocabolari e le loro convinzioni in una componente profana e in una religiosa, devono poter partecipare nel loro linguaggio religioso alla formazione della volontà politica.
In secondo luogo, bisogna che lo stato non riduca preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche. Se nei confronti dei loro concittadini religiosi i laici dovessero pensare di non poterli prendere sul serio — come autentici contemporanei della modernità — per via del loro atteggiamento religioso, allora si scivolerebbe indietro al piano del mero modus vivendi e si perderebbe quella “base del riconoscimento” che è costitutiva della cittadinanza. Dunque i laici non devono escludere a priori di poter scoprire contenuti semantici dentro ai contributi religiosi; a volte possono addirittura trovarvi idee già da loro stessi intuite e, fino a quel momento, non del tutto esplicitate. Tali contenuti possono essere utilmente tradotti sul piano dell’argomentazione pubblica. Nell’ipotesi più felice, entrambe le parti dovranno impegnarsi, ciascuna dal proprio punto di vista, a interpretare il rapporto fede/ sapere in maniera tale da promuovere una convivenza riflessivamente illuminata.
Questo testo è tratto da:
Verbalizzare il sacro di Jürgen Habermas, ed.Laterza, € 28
vedi: Tentazioni, consumo, mercato e religione
Unioni civili, non parliamo di laici contro cattolici