Il teorico della decrescita felice contro le “follie dell’obsolescenza programmata” Così le strategie del consumismo alterano la nostra percezione del reale
Il brano che pubblichiamo in questa pagina è tratto dalla prefazione alla nuova edizione riveduta e ampliata del libro di Serge Latouche Usa e getta. per Bollati Boringhieri nella traduzione di Fabrizio Grillenzoni, € 15
Come provare, nel caso di un oggetto complesso, che abbia subito l’introduzione deliberata di un pezzo difettoso allo scopo di costringere l’utilizzatore a comprare un nuovo apparecchio? Le lobby industriali, soprattutto quelle degli apparecchi elettrici ed elettronici, particolarmente nel mirino, non hanno del tutto torto quando sostengono che l’obsolescenza programmata intesa come complotto o sabotaggio non esiste. Indubbiamente, sostengono, la vita degli apparecchi è limitata, ma ciò corrisponde al desiderio dei consumatori, la maggior parte dei quali non aspetta la morte dell’oggetto per comprare un nuovo modello.
Da questo punto di vista, il telefono cellulare è emblematico: la sua durata media di vita è di ventiquattro mesi, ma in generale il rinnovo avviene dopo diciotto e, nel caso dei ragazzi, dopo dodici o meno. Chiaramente il consumatore è stato formattato dal marketing, e l’industria nel suo insieme ha gran parte della responsabilità di questo comportamento di acquisto compulsivo, in particolare attraverso le politiche di vendita, che sovvenzionando l’acquisto di nuovi apparecchi spingono a un rinnovo rapido. La campagna della Bouygues Telecom, che si vanta di essere «il solo operatore che vi permette di cambiare smartphone ogni anno», è un esempio caricaturale del fenomeno. Resta il fatto che qualsiasi industriale può, in buona o cattiva fede, scrollarsi di dosso ogni responsabilità riguardo alla questione.
Triste leggenda
Le stesse lobby contestano anche le affermazioni delle associazioni, secondo le quali gli oggetti durano sempre di meno. Per loro l’obsolescenza programmata non è che una «triste leggenda». Al contrario, secondo l’associazione Les Amis de la Terre, la durata di vita dei beni durevoli oggi è in media da sei a otto/nove anni, mentre ancora qualche anno fa era di dieci/dodici. Secondo i calcoli di Frédéric Bordage (GreenIT.fr), la durata di vita attiva degli apparecchi elettronici si è ridotta a un terzo nello spazio di una generazione. Un computer nel 1982 durava undici anni, contro i tre di oggi. Gli apparecchi si guastano prima e le famiglie sono costrette a ricomprarli più spesso.
Anche qui il dibattito è falsato, perché i confronti sono sempre discutibili, in quanto non si ha a che fare esattamente con gli stessi beni e le varie statistiche non prendono in considerazione le stesse cose. Il rapporto degli Amis de la Terre e del Cniid sostiene che la durata di vita dei televisori a tubo catodico era in media dai dieci ai quindici anni, mentre quella dei nuovi televisori a schermo piatto è di cinque. Ma si tratta dello stesso prodotto? In effetti, ciascuno può basare i propri argomenti su statistiche che gli danno ragione. Secondo uno studio commissionato dalla Gifam (Groupement interprofessionnel des fabricants d’appareils d’équipement ménager) e realizzato dall’istituto di studi di marketing Tns Sofres, la durata di vita dei prodotti non è diminuita negli ultimi trent’anni. Ma non è neppure aumentata, malgrado le innovazioni tecnologiche che avrebbero dovuto allungarla considerevolmente.
Un’anima candida potrebbe meravigliarsi che dei ricercatori siano capaci di permettere a dei chirurghi di operare a distanza ma non di fare in modo che il vostro frigorifero duri più di dieci anni. Bernard Planque, direttore generale della Gifam, replica che se la durata dei prodotti, in particolare degli elettrodomestici, non è aumentata, è soprattutto perché i consumatori li utilizzano di più: la probabilità di un guasto oggi dunque è maggiore, così come la stagnazione della durata di vita. Una retorica abile, bisogna convenirne, ma non del tutto convincente. D’altra parte, gli stessi industriali riconoscono senza difficoltà che la durata dei prodotti non è il loro obiettivo principale, e li si può capire…
Ecoefficienza
Spesso utilizzato dai produttori, un argomento ancora più perverso è quello dell’ecoefficienza. I nuovi apparecchi, sia nella fabbricazione sia nell’utilizzo, comporterebbero minor dispendio di materie prime e di energia. Ad esempio la Gifam, sempre lei, assicura che il rinnovo dei 25 milioni di elettrodomestici con più di dieci anni con apparecchi recenti più efficienti permetterebbe di risparmiare 5,7 miliardi di kilowat, cioè il consumo annuo dei parigini. Di qui la campagna pubblicitaria: «L’energia è il nostro futuro: risparmiamola ». Questo riciclaggio «ecologico» degli industriali, una vera e propria operazione di greenwashing, permette di giustificare l’abbandono di vecchi apparecchi ancora perfettamente funzionanti per acquistare nuovi prodotti presentati come meno dispendiosi in fatto d’energia. Cosa che peraltro non è del tutto falsa, anche se il risparmio di energia potrebbe essere ancora maggiore se si rinunciasse a tutta una serie di gadget energivori, presenti nelle automobili o nelle lavatrici, che spesso annullano la riduzione del consumo.
Un bilancio completo è ancora da fare. Nella maggior parte dei casi, l’economia effettiva è molto inferiore allo spreco rappresentato dalla eliminazione dei vecchi apparecchi, senza contare il fatto che il fenomeno aumenta considerevolmente i rifiuti. Abbandonare un prodotto che ancora funziona per l’acquisto di un altro di cui il consumatore non ha bisogno nell’immediato, in generale non rappresenta un guadagno ecologico e una diminuzione dell’inquinamento. (…)
La caduta dei costi
Ad esempio, per compensare lo spreco energetico rappresentato dalla rottamazione di una vecchia automobile, bisognerebbe tenere il nuovo modello per decenni. A questo va poi aggiunto l’effetto rebond, cioè il fatto di trasferire su un altro acquisto il risparmio realizzato. È un dato di fatto che i primi telefoni portatili messi sul mercato nel 1983 pesavano un chilo e mezzo, mentre oggi un cellulare pesa 100 grammi e consuma meno energia. Ma una maggiore efficienza nella gestione delle materie prime e dell’energia nel processo produttivo comporta una riduzione dei costi di produzione e di conseguenza un abbassamento dei prezzi degli apparecchi, che consente a una parte maggiore della popolazione di accedere ai prodotti e di consumarne sempre di più. Di conseguenza, l’intero processo si traduce in un aumento del consumo di risorse naturali.
Serge Latouche La Stampa 28.4.15
vedi: La partita truccata del capitalismo
Una rivoluzione culturale per salvare l’umanità
I diritti negati alla Terra e a chi verrà dopo di noi