In vista del quarantennale della sua morte violenta, lunedì prossimo, Pier Paolo Pasolini è stato tirato fuori dai cassetti con largo anticipo in una profluvie di iniziative: si sa come avviene ormai nei media, bisogna bruciare i concorrenti sullo scatto di memoria e così tutto avviene prima. Si è detto e scritto più dell’assassinio del poeta, che di lui e delle sue opere. Normale: il primo è ancora nebuloso, le seconde sono lì a disposizione in ogni momento, non è l’anniversario che le espone. Che omicidio è stato quello dell’Idroscalo? Una “semplice” faccenda da “marchettari”? Marchettari su commissione? Ed eventualmente “politica”? E da parte dei fascisti o del potere democristiano generico e specifico attaccato nei suoi scritti da Pier Paolo? Oppure (cfr. il suo amico pittore Zigaina) un “suicidio per delega” in un contesto paleocristiano della psiche di Pasolini?
Niente è davvero chiaro, anche se la spiccia ma sensata testimonianza di un collaboratore di giustizia come l’ex boss della banda della Magliana, Mancini, fa notare che un omicidio davvero politico, su mandato del “mondo di sopra” per restare al Carminati attuale, dopo averlo utilizzato in qualche modo non avrebbe lasciato campare un ragazzo incontrollabile come Pino Pelosi.
Resta la figura dell’intellettuale forse più ingombrante del primo quarto di secolo nel secondo dopoguerra, e naturalmente le sue opere, visionarie, profetiche, di una decadente vitalità (sfiorando l’ossimoro), senza ironia ma con uno spessore insieme ideale ed emozionale formidabile. Timidamente, affaccio l’ipotesi che per ricordarlo, come accade in molte parti del mondo dove si vedono i suoi film e si traducono i suoi libri così vari nel genere eppure con un denominatore sempre comune e riconoscibile, forse bisognerebbe aggiornarlo con qualche interrogativo. Non tanto e non solo il meccanicistico “Chissà che ne avrebbe pensato Pasolini?”, bensì con uno sguardo allargato al contesto contemporaneo. Come se Pier Paolo ponesse dei dubbi a Pier Paolo, quarant’anni dopo.
Per esempio: perché oggi non c’è un Pasolini, ovvero perché l’odierno paesaggio intellettuale italiano è pressoché un deserto? Oppure se anche ci fosse, magari rintanato in una biblioteca di provincia o insegnante in quel che resta della nostra scuola, come potrebbe venire alla luce di un sistema mediatico irrimediabilmente corrotto? Questioni di censura, in senso stretto oppure lato, da parte della strozzatura del potere politico-finanziario, da parte del sistema che non lo prevede già di suo, da parte del mercato che è a suo modo una forma censoria di grande selezione? Detto altrimenti, oggi verrebbe pubblicato o messo in condizione di fare teatro e cinema? Oppure essendosi così abbassato il livello dei parlanti/leggenti/vedenti/ascoltanti, uno come lui, del suo spessore, rischierebbe di non essere capito e quindi “venduto”? Sarebbe ostico, un mercante di idee impossibilitato a piazzare la sua merce particolare non più contemplata, sostituita dal gossip, dalla mercanzia superficiale perché è superficiale il popolo degli acquirenti, in una spirale verso l’abisso che di sicuro non mette allegria…?
E’ vero, c’è sempre il web, ma con che spirito uno come Pier Paolo affronterebbe il rischio dello sfiatatoio? Anche per un polemista eccezionale come lui la Rete risulterebbe una lama senza impugnature, che ti ferisce comunque… Ma tranquilli: passata la festa (dei morti), gabbato il poeta, tutto tornerà come prima e le onde della insulsa contemporaneità si ricomporranno in superficie, disperdendone di nuovo le ceneri.
Oliviero Beha Il Fatto Quotidiano 28 10 2015
Pasolini, la profezia sbagliata per difetto
Era una domenica esattamente come la prossima, il 2 novembre 1975, quando Pasolini venne assassinato. Non c’era la tv del mattino, e tantomeno Internet, e la notizia cominciò a circolare nei giornali radio. Adesso, dopo quasi una generazione e mezza, mentre i suoi libri continuano a essere tradotti in tutto il mondo e la filmografia ogni tanto ce lo ricorda, come per il film discutibile di Abel Ferrara su di lui, almeno in Italia le sue idee, che ancora affascinano i giovani, sono estranee al dibattito pubblico, quello per esempio sul Pd tra la Leopolda e San Giovanni. Oppure quello sull’interrogatorio eccentrico, eccentricissimo, del Presidente Napolitano nel processo alla “trattativa Stato-mafia” (le due maiuscole sono da intendersi solo come segni diacritici, non un attestato di valore: cfr. le polemiche su Grillo e “la morale della mafia di una volta”).
Mi riesce difficile non sentire in occasioni simili il buco, la mancanza di un’intelligenza forte e non pusillanime come quella di uno scrittore di cui magari non resterà tutto, ma di sicuro sopravviverà la veggenza socioculturale. Resisto alla tentazione banale e improduttiva di chiedermi che cosa avrebbe detto oggi: di Renzi e del suo monopolio propagandistico con il codazzo di “cani del Sinai” (Fortini, ma anche Flaiano) dietro al carro del vincitore; della manifestazione di San Giovanni, del milione di protestanti e di quella parte di sinistra considerata non senza motivo alla stregua di vecchi arnesi intercambiabili; dell’interrogatorio al Quirinale, meglio se confrontato con il celeberrimo “Io so… io so… ma non ho le prove” del “romanzo delle stragi” di Pier Paolo.
Invece mi guardo attorno: le considerazioni del poeta sul consumismo che aveva antropologicamente cambiato i connotati degli italiani si sono rivelate una profezia sbagliata, ma per difetto. Ormai gli italiani non ci sono più, sono stati polverizzati culturalmente ed economicamente a colpi di spread, tv e quant’altro, in un Paese svuotato di morale personale e di etica collettiva, in cui anche la battaglia per la legalità può assumere una veste tecnica, amministrativa, politica, in definitiva amorale mutuando stilemi mentali dall’illegalità. Va bene quel che succede in aula a Berlusconi, non va bene se succede a De Magistris. Quanto agli intellettuali, categoria di riferimento pasoliniana comprensiva anche dei media e dei sottomedia di allora, ditemi il nome di una figura pubblica che oggi abbia il coraggio di non avere paura o vantaggi o interessi minuti o massimi che lo tacitino.
Che dica di Renzi semplicemente chi è e che cosa fa, astraendolo dal confronto con la classe dirigente che l’ha preceduto sul quale – anche comprensibilmente – prospera. Che gli faccia notare che avere un partito al 41 e magari anche al 51%, in un Paese distrutto, significa solo amministrare un deserto per sé e per i suoi, cosa che non mi mette di un’allegria sconfinata. Forse sarebbe meglio vincere nel Paese, e rischiare di perdere le elezioni, dico così, per capirci. Uno, pasolinianamente o no, che non si esima dallo stigmatizzare gli effetti di un sindacalismo pernicioso non nei suoi ideali bensì nei suoi comportamenti, da cinghia di trasmissione con la politica e con le relative poltrone, al punto che oggi in giro per Roma riconosci un sindacalista piccolo, medio o grande dalla sua fisiognomica: sono diventati un’espressione antropologica. Uno, infine, che dica dei media che sono pienamente corresponsabili di un Paese sfasciato, più sfasciato che ai tempi del fascio. Ed è davvero tutto dire, anche se alla Leopolda si è celebrato, con grande attenzione all’“eterno femminino”, il “nuovo che avanza”: certo, ma in un paesaggio ormai spettrale. Che birba, quell’ottimista di Pier Paolo.
Oliviero Beha Il Fatto Quotidiano 29 10 2014
vedi: 39 anni
Pasolini: morte di un profeta laico.