Ha scandalosamente ragione Roberto Saviano quando dice, in una bella intervista a Sky, che “la parola bontà è oggi impronunciabile”, ma che lui crede in essa e nel rapporto umano “uno a uno”. Non a caso egli parlando della bontà, con un atto di fede e di speranza civile (non avendo più fede e speranza nelle istituzioni, nella politica, nei media e nella giustizia “in nome della quale vengono compiuti i peggiori crimini”), afferma qualcosa di talmente inaudito da suscitare l’imbarazzo del silenzio.
Nel linguaggio del becerume imperante, infatti, dalla radice bontà derivano spesso espressioni spiacevoli, come il derelitto “buonismo”; senza contare che perfino nei dizionari il buonuomo è sinonimo di sciocco, sempliciotto, babbeo. Siamo talmente immersi nel cinismo fine a se stesso e così abituati alla prevalenza della canaglia che perfino la parola onestà provoca moti di fastidio, con il risibile motivo che essa dovrebbe essere una precondizione, se non fosse che siamo in uno dei Paesi meno onesti del pianeta.
Provate a pronunciare in pubblico parole come lealtà, generosità, sincerità, bontà: vi guarderanno come uno squilibrato o sorrideranno credendovi un furbastro imbroglione. Reazioni figlie di un’ignoranza crassa dimentica dei fondamentali scolastici. Nella cultura greca la kalokagathia, somma virtù civile, rappresentava la sintesi mirabile di bellezza e bontà, e davanti alla Lettera VII di Platone sul “come sia difficile restare onesti nella politica”, le interviste di Davigo sono un monumento al garantismo. Non sorprende, infine, che l’autore di Gomorra, sussidiario del male, proclami la superiorità del bene. Che mostri sfiducia nell’esercizio della giustizia, del tutto inadeguato rispetto al senso di giustizia continuamente negato o vilipeso.
E che tramontata l’egemonia delle masse, dei partiti e dunque del partito preso riscopra l’umanesimo che un grande Papa del passato così esprimeva: non voglio sapere da dove vieni, voglio sapere chi sei.
Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano 27/04/2016