Teoria critica della società. Per il filosofo tedesco Habermas i processi decisionali sono stati svuotati dal prevalere dei meccanismi di mercato
Testo pubblicato dall’ultimo numero della rivista «Vita e pensiero» , tratto da un’intervista di Michaël Foessel a Jürgen Habermas.

Il capitalismo finanziario globalizzato e autonomo, da parte sua, si sottrae ampiamente all’intervento del politico nella nostra società globalizzata e sempre più interdipendente, che però resta frammentata in Stati nazionali. Dietro il paravento della democrazia, le élite politiche mettono in opera in maniera tecnocratica gli imperativi dei mercati senza offrire praticamente alcuna resistenza. Chiuse nelle loro prospettive di Stati nazionali, non hanno altra scelta. Preferiscono così sconnettere i processi politici decisionali dallo spazio pubblico moribondo le cui infrastrutture si sfaldano.

Non cambierà nulla in questa colonizzazione delle società, dibattute all’interno e contrapposte tra loro tramite un populismo di destra, finché non ci sarà una forza politica che troverà il coraggio di brandire come obiettivo politico l’interesse generale superando le frontiere nazionali, quand’anche esso restasse confinato alla sola Europa o alla zona euro.

Il neoliberalismo resta convinto della razionalità del mercato lasciato a se stesso. La sua domanda cerca di mettere in luce come la “razionalità” debba essere compresa, se non ci si vuole accontentare, come fanno gli economisti, di una “razionalità sistemica” o di una “razionalità decisionale”. La teoria sociale si distingue dalle discipline sociali prese individualmente non per il suo riferimento all’insieme, ma per la sua esigenza critica.

Con la Teoria dell’agire comunicativo auspico, di conseguenza, di mettere in luce i principi di una critica, spesso mascherati da presupposti pseudo-normativi o legati alla storia della filosofia. La mia proposta consiste nel cercare le tracce di una “ragione comunicativa”, che trova la sua origine nei processi di intesa, nelle stesse pratiche sociali. Nel quotidiano, i soggetti agenti suppongono reciprocamente di essere responsabili dei loro atti e di parlare degli stessi oggetti, di pensare quello che dicono, di mantenere quello che promettono, di affermare il vero, di richiamarsi tacitamente a norme legittime ecc.

Questo agire comunicativo del quotidiano si fonda su un insieme di elementi che restano impliciti, finché la pretesa reciproca alla validità viene soddisfatta in maniera credibile. Ma nel momento in cui essa è nelle condizioni di diventare oggetto di una critica, può essere negata, e ogni negazione viene a interrompere la routine, poiché ogni contraddizione rende manifesti questi elementi impliciti. Io chiamo “ragione comunicativa” la capacità di operare tra questi elementi impliciti per mezzo di una sonda critica, invece di procedere ciecamente a tentoni.

Questa capacità si manifesta attraverso la negazione, con veementi proteste o con il rifiuto discreto di un consenso implicito, con il rifiuto di seguire le convenzioni in nome delle convenzioni, con la rivolta contro situazioni inaccettabili o contro il ripiegamento silenzioso, fosse anche cinico o apatico, dei marginali e degli esclusi. Ogni organizzazione o istituzione sociale si fonda infatti su questi elementi. Nel quadro di conflitti particolarmente persistenti, non prenderemmo in considerazione di andare in tribunale se non ci aspettassimo un processo più o meno equo.

Non prenderemmo in considerazione nemmeno di partecipare a elezioni democratiche, se non presupponessimo che “ogni voto conta”. Sono presupposti idealisti, spesso contraddetti dai fatti, e tuttavia indispensabili della partecipazione. Oggi si vede cosa avviene quando questi presupposti sono contraddetti da situazioni post-democratiche: l’aumento dei tassi di astensione. Quando il sociologo ricostituisce tali presupposti adottando la prospettiva dei partecipanti, può fondare la sua critica, ad esempio delle situazioni post-democratiche, su una ragione all’opera nelle pratiche sociali stesse. [...]

Con la secolarizzazione del potere politico, la religione si trova liberata dalla sua funzione di legittimazione. La responsabilità dell’integrazione dei cittadini passa ormai dall’ambito sociale a quello politico, e questo concretamente significa: dalla religione alle norme fondamentali dello Stato costituzionale, che s’iscrivono in una cultura politica comune. Queste norme costituzionali garantiscono l’insieme dello sfondo collettivo di un consenso e traggono la loro forza di convinzione dall’argomentazione incessantemente rinnovata del diritto della ragione e della teoria politica.

Il riferimento sempre più veemente degli uomini politici ai “valori comuni” suona sempre più vuoto, e la confusione tra “principi” che esigono una giustificazione e “valori”, che sono più o meno attraenti, mi esaspera massimamente. È praticamente possibile seguire al rallentatore il modo in cui le nostre istituzioni politiche si trovano a essere svuotate della loro sostanza democratica nel corso del loro adattamento tecnocratico agli imperativi di un mercato globale.

Le nostre democrazie capitaliste sono ridotte a democrazie di facciata. Questi sviluppi richiedono una demistificazione scientificamente fondata. Ma nessuna delle discipline accademiche di cui è oggetto, né l’economia né le scienze politiche o la sociologia, possono, ciascuna presa individualmente, dedicarsi a questa impresa di demistificazione. I contributi vari di queste discipline devono piuttosto essere sottoposti a una concezione critica di se stessi. Fin da Hegel e Marx, è appunto questo l’oggetto di una teoria sociale critica, che io persisto nel considerare il nocciolo del discorso filosofico della modernità.

Jürgen Habermas (1929), filosofo e sociologo tedesco          Il Sole Domenica 22.5.16

 

vedi: L’insostenibile stanchezza della democrazia

Il finanzcapitalismo deve essere disarmato

L'esperimento su Atene: svuotare la democrazia

Se la democrazia è incompatibile con il mercato

Il miracolo della Costituzione e la nostra dignità di cittadini

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