Il giubilo diffuso nei commenti dei principali quotidiani per la bocciatura del referendum sull’articolo 18 avviene all’interno di una narrazione della storia vecchio una trentina d’anni: “retroguardia” contro “avanguardia”, vecchio contro nuovo. È questo il filo rosso che segna gli editoriali di oggi così come diverse interviste: il nuovo, la modernità, la contemporaneità consisterebbero nella flessibilità, cioè in sostanza nel diritto dell’imprenditore ad assumere e licenziare a piacimento, mentre il vecchio consisterebbe nel diritto delle fasce sociali medie e basse ad avere un minimo di continuità del lavoro, quindi del reddito.
Siamo appena usciti, il 4 dicembre scorso, da uno storytelling tutto centrato su “nuovo” e “vecchio”, su “cambiamento” verso “passato”: e non mi pare sia andata benissimo, a chi lo propalava. Perché no, non ci siamo cascati, in larga maggioranza. Abbiamo preferito guardare ai contenuti delle cose – o magari ad altre cose ancora – che non alla confezione, al racconto.
E anche questi referendum abrogativi – sia quello bocciato sull’articolo 18, sia quello ammesso sui voucher – pongono oggi una semplice ma dirimente questione: è contemporaneità, è modernità, è futuro sostenibile la discontinuità acrobatica di reddito? È contemporaneità, è modernità, è futuro sostenibile una situazione in cui sempre più persone (e quasi tutte le nuove generazioni) sono costrette per sempre a raccattare “bullshit jobs”?
Ecco, la domanda è tutta qui. Perché possiamo discutere tranquillamente sui cambiamenti strutturali dell’economia, su modelli di produzione postindustriali che non garantiscono più un lavoro a vita, su quello che già 17 anni fa Rifkin chiamava “modello hollywoodiano”, cioè gruppi di lavoro che si mettono insieme per un obiettivo a termine (tipo fare un film) e poi ciao, si ricomincia da un’altra parte. Possiamo discutere di gig economy, di intelligenza artificiale e algoritmi che si mangiano più posti di lavoro di quanti non ne creino, di robotizzazione, di Uber, Foodora e altre app, insomma di tutto.
Ma quello che non possiamo fare, se guardiamo al presente e all’immediato futuro, è pensare che tutto questo si traduca in un modello di società in cui nessuno può programmarsi decentemente l’esistenza per eccesso di rarefazione-saltuarietà di reddito.
Non lo possiamo fare perché semplicemente non regge. Non regge a livello economico, non regge in termini di tenuta sociale, di coesione tra le persone, di convivenza civile. Altro che “avanguardia”: non si può. Proprio non si può andare verso un modello così, non regge, non funziona. Il There is No Alternative di thatcheriana memoria si è rovesciato come un boomerang contro chi lo proponeva: non c’è oggi nessuna alternativa possibile che ideare e implementare strumenti che consentano una maggiore continuità di reddito nella crescente fascia di popolazione a cui questa continuità è negata.
Poi, di nuovo, possiamo discutere del come, perché sul campo le proposte sono infinite da sinistra da destra: reddito minimo universale o no, diminuzione dell’orario, tetti massimi agli stipendi, cogestione, redistribuzione attraverso patrimoniali o imposte sulla finanza – e possiamo parlare perfino di tassazione negativa, eccetera eccetera.
Possiamo parlare di tutti i “come” possibili, purché si sgombri il campo dalla narrazione farlocca secondo cui sarebbe “modernità” un modello di società sempre più diseguale, con bullshit jobs e intermittenti redditi da fame per quasi tutti, mentre sarebbe “retroguardia” andare nella direzione opposta. Perché, semplicemente, è una truffa.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it 13/01/2017
vedi: Bauman, liquidatore delle certezze e ideologie del 900
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