Il 18 gennaio 2016 muore a Torino dopo una breve malattia MASSIMO OTTOLENGHI (100 anni, nome di battaglia Bubi) avvocato, magistrato, scrittore, Partigiano, Azionista e Antifascista.
Ottolenghi nacque a Torino in una famiglia ebraica della buona borghesia locale: il padre era docente di diritto internazionale e amico di Luigi Einaudi ( futuro presidente della Repubblica dal 1948) e venne espulso dall’università di Torino dopo l’approvazione delle leggi razziali, nel 1938. Per questo fatto, Ottolenghi, che già aveva conosciuto l’antifascismo in famiglia, rafforzò ancora di più le sue convinzioni.
Laureato in legge e allievo di MASSIMO MILA (1910- 1988) Ottolenghi partecipò fin dall’inizio alla Resistenza con Giustizia e Libertà sulle montagne piemontesi, principalmente nelle valli di Lanzo (TO). Entrò in contatto con NORBERTO BOBBIO ( 1904- 2002) e aderì (con ADA GOBETTI (1902- 1968), ALESSANDRO GALANTE GARRONE (1909- 2003) e GIORGIO AGOSTI 1910- 1992)) al Partito d’Azione per il quale diresse il quotidiano torinese Giustizia e Libertà. Così scrive lo storico Gian Carlo Jocteau nell’introduzione a Per un pezzo di patria ( scritto da Ottolenghi nel 2009):
“La Resistenza di Ottolenghi fu una resistenza civile, piuttosto che militare. Personalmente poco propenso all’uso delle armi, egli fu investito di compiti di alto livello nei contatti fra comandi militari, formazioni partigiane e istituzioni locali, sia nelle valli di Lanzo, sia fra le valli e Torino, e si adoperò efficacemente e con frequente grave rischio personale anche per proteggere combattenti, sfollati, ebrei e popolazione civile da arresti, rastrellamenti e rappresaglie.”
Ottolenghi, come uomo di legge, agì inoltre per favorire, nei contrasti interni e nei tribunali partigiani, il rispetto di regole ragionevoli e, per quanto possibile, condivise. Salvò la vita, tra l’altro, a 200 ebrei e fu lui ad assumere per la prima volta GIORGIO BOCCA (1920- 2011) al giornale Giustizia e Libertà. Anni dopo, proprio le parole del suo amico e compagno di Resistenza, diventato grande giornalista, sul suo libro Ribellarsi è giusto del 2011 gli trasmisero di nuovo orgoglio e fierezza:
“Ho ricevuto il tuo libro – gli scrisse Bocca – dove ho ritrovato la purezza e forse anche l’intransigenza di Giustizia e Libertà“.
Ottolenghi disse di aver scritto quel libro:
“Come un urlo, come uno sfogo, come un invito ai giovani che sono gli unici che possono assumere nelle proprie mani la situazione e che non vanno compromessi con il passato e che non hanno ancora macchiato le proprie coscienze con vergognose azioni politiche o affaristiche. I giovani sono l’unica speranza e risorsa per la ricostruzione e la rinascita del Paese, rinascita che deve farsi tornando ai valori del Risorgimento e della Resistenza“.
Negli anni del dopo guerra Ottolenghi è stato magistrato e avvocato civilista e si affacciò nel mondo editoriale nel 1990, quando aveva già 75 anni, pubblicando numerosi libri, soprattutto di Memoria resistenziale rivolta ai giovani, e fino a tardissima età presenzierà a molte occasioni celebrative della Resistenza per esortare a raccoglierne l’eredità. Nel 2011 pubblica Il monito di un novantacinquenne alle nuove generazioni in cui, tra l’altro, scrive:
“Nel dopoguerra, ci siamo dimenticati che non dovevamo solo ricostruire il Paese dalle macerie, ma anche gli uomini. Il mio auspicio è che il 25 aprile sia come il 14 luglio per i francesi. I primi vent’anni di questa ricorrenza sono stati costruttivi, poi distruttivi, con Craxi e soprattutto Berlusconi: attacchi continui alla Costituzione, alla magistratura e leggi ad personam. Non siamo ancora usciti da questo periodo regressivo, basta vedere il discutibile quadro di riforme costituzionali che vede impegnata l’attuale maggioranza di governo.”
E ancora ai giovani scriverà:
“Per essere partigiani, per combattere l’indifferenza, voi giovani non avete bisogno di un simbolo, di una bandiera, di un’ideologia: avete la Costituzione”.
In un’intervista a Linkiesta per il 25 aprile del 2013 così si espresse Massimo Ottolenghi:
“Sono un ragazzo del 1915, un vecchio testardo, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono stato e resto un resistente, un democratico in servizio permanente. I partigiani? Non siamo degni di ricordali. E se mi chiedete perché, ve lo spiego. Perché si è pensato a ricostruire il benessere e non gli uomini, si è perdonato tutto. Non si è epurato, si è lasciato che le istituzioni venissero occupate dai partiti, colonizzate dalle caste e dalle mafie. Si è concepita la politica come una carriera, il lavoro come una merce e si è umiliata la Costituzione. Si è, infine, fatto sprezzo e gioco della giustizia, esautorandola e mettendola alla berlina…
Confido ancora nei giovani. Mi fa pena vederli sacrificati e con un futuro condannato. I nostri figli e le generazioni di mezzo avevano ritenuto che dar loro il benessere fosse la soluzione di tutto. Bisogna, invece, dare speranze, ideali e possibilità di misurare se stessi con la vita…
In tempi di revisionismo, ( essere partigiani) significa difendere la Costituzione, la legge, le istituzioni e il linguaggio. La regola è la base di una società, non uno strumento di potere. Solo l’azione che nasce spontanea dall’indignazione muove la storia. Ecco, perché essere partigiani nella contemporaneità. Ribellarsi non è impossessarsi del potere ma restituire la legittimità alle istituzioni.”
Vedi: Addio a Massimo Ottolenghi partigiano per sempre
Vedete il nostro video ” Il dovere della Memoria“: QUI