Un’infinita possibilità di connessione e di informazione ci rende veramente soggetti liberi? Partendo da questo interrogativo, Han tratteggia la nuova società del controllo psicopolitico, che non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio: ci invita invece di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Ci seduce con un volto amichevole, mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data, ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio.
Nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet e gli smartphone – non si viene torturati, ma twittati o postati: il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali che sono costantemente monetizzati e commercializzati. In questo suo saggio, Han pone l’attenzione sul cambio di paradigma che stiamo vivendo, mostrando come la libertà oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione: per ridefinirla è necessario diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità. (IBS)
Il libro: Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, ed. Nottetempo 2016, € 12,00
Aspettative frustrate che possono uccidere
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”. La lettera di Michele ieri era ovunque sui social, dopo la pubblicazione voluta dai genitori sul Messaggero Veneto: 30enne, friulano, grafico che ha ricevuto troppi rifiuti (sul lavoro e in amore), si è suicidato lasciando una lettera lucida perché “dentro di me non c’era caos, dentro di me c’era ordine”.
Ne abbiamo discusso a lungo in redazione tra noi intorno ai trent’anni: abbiamo un lavoro, stiamo meglio di tanti nostri coetanei e di certo meglio di Michele. Ma tutti noi abbiamo capito cosa intende quando, poche righe prima di congedarsi, scrive: “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità”. Chi è cresciuto con il senso di colpa di avere troppo e poi, diventato adulto, per colpa della crisi, della globalizzazione, del debito pubblico ma di sicuro non sua, ha scoperto di avere troppo poco matura una notevole frustrazione.
Di fronte a un suicidio non ha senso cercare colpevoli o concentrarsi su quel Post scriptum politico (“Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi”). Il filosofo tedesco Byung-Chul Han nel suo libro Psicopolitica (Nottetempo) ha scritto: “Nelle società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società e il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento”.
Una volta la qualità di una democrazia si misurava sul tipo di vita che conducevano gli ultimi, quelli che in inglese si chiamano “have nots”, coloro che non hanno, i più fragili. Poi la retorica della meritocrazia ha stabilito che invece la temperatura della democrazia andava misurata alle eccellenze, le élite. Predicare merito e competizione, in un Paese vischioso e declinante come l’Italia, può essere utile e perfino necessario. Ma produce effetti collaterali. E talvolta vittime.
Stefano Feltri Il Fatto 8 febbraio 2017
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