Riflettori puntati sull’affermazione di leader forti. Sostenuta senza mezzi termini da Grillo, è incarnata nell’attualità dal decisionista Trump e da Marine Le Pen, candidata-presidente a donna forte francese che sfida Europa e Nato. Secondo “La Politica” di Aristotele, che si può considerare un testo evangelico per le democrazie moderne, la debolezza delle classi medie è la causa dell’ascesa di capi demagoghi- tiranni al tempo, “uomini forti” oggi. Accade quando in un Paese i ricchi diventano sempre più ricchi e potenti e, al contempo, aumenta il disagio sociale tra la maggioranza della popolazione.
Una società diseguale, secondo Aristotele, radicalizza la democrazia e incoraggia estremismi tirannici. La preminenza della medietà sociale, al contrario, dà stabilità alla politica, equilibrio alla democrazia. Questa è la spiegazione sociologica all’insorgenza di Trump negli Usa, dove le classi medie hanno preso un’indiscutibile batosta dalla terza rivoluzione tecnologica (Ict) – risparmiatrice di lavoro ripetitivo – e poi dalla crisi economico-finanziaria. La debolezza delle classi medie spiega anche l’ascesa di Putin, uomo forte in una Russia in cui le disuguaglianze economiche sono le più elevate al mondo: l’1% più ricco degli adulti possiede il 75% della ricchezza nazionale(Global Wealth Report 2016); e ancora, la vittoria schiacciante di Modi – uomo forte in India – nel 2014, contro il partito del Congresso, che aveva dominato per decenni senza una lotta efficace alla povertà.
Si tratta di capi che sanno andare direttamente al popolo per via plebiscitaria, cercando di dis-intermediare il rapporto tra istituzioni politiche e popolo “sovrano”. Sfruttano (ma anche compensano) il discredito delle nomenclature di partito e la sfiducia diffusa verso le élite democratiche ormai implose, accusate dal popolo di autoreferenzialità e soprattutto di non averlo protetto con efficacia dalle conseguenze della crisi economico-finanziaria. È da questo mood popolare che nasce il risentimento anti-establishment anche di Brexit.
Se c’è un trend verso l’uomo “forte”, vanno tuttavia tenute in conto le diversità di contesto. Trump si può spiegare anche con lo spiccato “nuovismo” degli statunitensi o con un pregiudizio di genere nei confronti della sua rivale. Putin con una propensione storica dei russi allo zar, si chiami Pietro Romanov, Stalin o Putin. Modi, orgoglio hindu, anche con appartenenze religiose. Differente è anche il caso della Merkel, che spicca in un’Europa a forte trazione tecnocratica, ma affetta da gravi squilibri tra Stati (“le due velocità”) e da nanismo politico su scala globale. Il mondo che l’Europa ha dominato per oltre quattro secoli, uscito dal letargo, con la sua crescita giovane e dinamica l’ha infiltrata e irrevocabilmente ridimensionata.
Le differenze permangono anche tra leader occidentali atlantici. Trump vince sfruttando il proverbiale nuovismo americano, puntando sul risentimento delle classi medie e sul disagio sociale diffuso. Merkel, al contrario, si è affermata per l’orientamento conservatore degli europei e per una miglior tenuta della classe media rispetto a quella degli Stati Uniti.
A dispetto di tutte queste differenze, è innegabile che ci sia una tendenza, anche in Occidente, verso capi forti, che riducono i partiti a organizzazioni personali e le élite a stuoli di fedeli nominati. Anche i media – odierno scenario della politica – non hanno bisogno di partiti né di élite, ma di pochi leader dei quali poter esaltare ambizioni, fascino, carisma e, soprattutto, il potenziale anti-casta. La personalità del leader può persino trascendere il contenuto del messaggio politico, il che ovviamente crea incertezza, come nel caso di Trump o in quello della Le Pen.
Modi, primo leader tra quelli delle democrazie rappresentative a essersi affermato tre anni fa in quanto “uomo forte” e “messia dei poveri”, con provvedimenti come la recente demonetizzazione o l’introduzione di una tassa unica sui beni (sostituendo i mille balzelli dei singoli stati), può essere preso a esempio di coerenza con i suoi intenti programmatici. Sta forgiando un nuovo blocco sociale di potere e alimenta il suo carisma populista con la demonetizzazione, che ha lo scopo di colpire la ricchezza indebita da evasione fiscale, illegalità e corruzione: obiettivi che piacciono a un’India che conta il 42% dei poveri del pianeta e in cui l’1% della popolazione adulta più ricca ha ben il 59% della ricchezza nazionale. Modi rilancia il potere centrale nazionale di cui è a capo.
Questo nazionalismo sovranista è un driver comune per tutti i potenti leader populisti: con mille sfumature diverse rende gli slogan di Modi analoghi a “Prima l’America” di Trump o all’esumazione della grandeur nazionale della Le Pen). Assume, tuttavia, connotati e significati diversi: forse un passo avanti per la policentrica India, ancora con i piedi d’argilla sul piano della modernizzazione; un passo indietro per la nazione guida dell’Occidente, che non può permettersi chiusure nazionaliste alla Trump. Sarebbe, infine, un anacronismo gollista nella Francia europea del XXI secolo.
Nel mondo globale, le politiche protezioniste e dei “muri”, come le bugie, hanno le gambe corte.
Carlo Carboni Il sole 24 ore 13 Febbraio 2017
Queste nostre democrazie fragili
«George L. Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione».
Come difendersi dai populismi in tempi di crisi: la lezione postuma dello storico George L. Mosse.
Trump cavalca il risentimento di una middle class convinta di poter tornare a passati splendori a suon di protezionismo e discriminazione. Marine Le Pen incendia le folle ben oltre i confini francesi rilanciando parole d’ordine come «padroni a casa nostra» e un mitico «risveglio dei popoli». In Italia la destra cerca di ricompattarsi sotto l’ombrello “sovranista” (il neologismo per chi vuole smontare l’euro e l’Ue in nome del feticcio della sovranità nazionale). Lo scorso sabato, i fantasmi del luglio ’60 hanno scosso Genova in occasione del convegno “Per l’Europa delle patrie”, organizzato da Forza Nuova, ospiti d’onore alcuni leader dell’estrema destra europea neonazista e negazionista.
In L’umanità in tempi bui Hannah Arendt raccomandava di farsi «pescatori di perle», le perle di pensiero di chi ha penetrato con sguardo acuto i tempi oscuri. Di fronte ai rigurgiti del peggior Novecento, mentre gli intellettuali statunitensi si rimettono umilmente a studiare i prodromi del fascismo italiano, a noi può tornare utile rileggere uno dei più grandi e influenti storici del Novecento, George L. Mosse.
Nato nel 1918 e morto nel ’99, ebreo tedesco (rampollo di un’illustre famiglia di editori, sfuggì al nazismo riparando negli Usa) e omosessuale (fece coming out negli anni Ottanta) fu un outisder da ogni punto di vista: caratteristica che contribuì non poco a formare il suo sguardo libero, originale e provocatorio. Con La nazionalizzazione delle masse (1975) impresse alla storiografia la “svolta culturale” che rivoluzionò gli studi sui fascismi e le masse in politica nel XX secolo. Il suo vasto programma di ricerca, pervaso da un forte afflato etico, ruotò in gran parte attorno a un problema ancora attualissimo: la debolezza delle democrazie parlamentari nei momenti di crisi.
Il tema percorre sia La nazionalizzazione che un’altra grande opera, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (1980), in particolare la sezione in cui tenta di tracciare una teoria generale del fascismo. Una sintesi del suo pensiero emerge nella lunga Intervista su Aldo Moro, una disamina della crisi della democrazia italiana nel quadro internazionale (riproposta da Rubbettino nel 2015). Correva l’anno 1979, ma le riflessioni di Mosse intorno allo statista Dc assassinato, rilette oggi, offrono una griglia d’analisi pertinente ai problemi che ci assediano. A tratti, sono quasi profetiche.
Premessa: la libertà, politica ed economica, non può sopravvivere senza le strutture del sistema parlamentare, ma la storia ha mostrato che il “meno peggio” tra i sistemi politici è molto fragile, quando si trova sotto pressione. Non serve una guerra mondiale: basta una crisi economica seria e prolungata. Anche se il fascismo non si ripresenterà mai nelle stesse forme degli anni Trenta, i germi di crisi e dissoluzione del sistema permangono.
Il deficit originario che affligge la democrazia parlamentare, spiega Mosse, è l’inefficacia dei suoi meccanismi di partecipazione, limitati essenzialmente al momento del voto, come già avvertiva Rousseau. Questi si sono ancor più ristretti con la crisi dei grandi partiti, tradizionali strumenti di integrazione delle masse. Finché la maggior parte delle persone riesce a vivere dignitosamente, il sistema va avanti per inerzia; quando la scarsità incombe, le tensioni riemergono.
La democrazia parlamentare vive di mediazioni basate sulle facoltà critiche e razionali, ma la cittadinanza, continua Mosse, smette con facilità di avvertirne i benefici quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, manca una prospettiva per il futuro. In questi frangenti, il “leader forte” che risolve, in cui identificarsi, appare rassicurante, anziché una minaccia: non a caso, secondo recenti sondaggi, in Italia lo auspicano 8 cittadini su 10.
Mosse evidenzia un paradosso ancora attualissimo: per essere statisti di successo nei sistemi parlamentari contemporanei bisogna diventare in certa misura “leader carismatici”, capaci di muovere le passioni più che appellarsi alla ragione — anche se è quest’ultima a essere essenziale in una democrazia sana. L’irrazionale ha una presa molto maggiore su una popolazione alienata, quando il mondo appare pericoloso e incomprensibile.
Per questo oggi il mito della nazione, cioè la più potente idea-guida del XIX e XX secolo, capace di creare coesione, mobilitare passioni e superare le divisioni di classe, profondamente radicata nella cultura occidentale, s’è ridestata con vigore. Ripiegare nella comunità nazionale offre l’allucinazione consolatoria del ritorno a un passato mitizzato, a misura d’uomo, contro un mondo dominato dal potere misterioso del denaro.
La frustrazione, infatti, è incanalata contro “le banche” e “l’Europa”, incarnazioni delle grandi forze spersonalizzanti del capitalismo finanziario, arcinemico individuato già più di un secolo fa (e sopravvissuto allo spettro gemello del marxismo). Il bisogno di rassicurazione è tutt’uno con quello di avere la sensazione di partecipare, di contare qualcosa, anziché essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza.
È una delle chiavi del boom del Movimento 5 stelle, unico soggetto parzialmente alternativo alle destre: al rassicurante carisma del capo e a originali riedizioni dei grandi raduni ritualizzati unisce la retorica dell’“uno vale uno” e un ventaglio di strumenti, dai meet up alle consultazioni online, che soddisfano il bisogno di partecipazione, sebbene in modo più apparente che sostanziale. Anche perché molte persone non hanno gli strumenti intellettuali per comprendere la differenza, e questo ci porta all’ultima considerazione. Anche se non mancano della capacità di leggere una realtà sempre più complicata, le persone hanno comunque bisogno di «cogliere la vita nel suo complesso e a capire da sé», scrive Mosse (ne L’uomo e le masse). Per questo, le teorie del complotto e i “falsi” costruiti per compiacere credenze diffuse hanno tanta presa.
Ossessionato dall’interrogativo di Machiavelli, «come può l’uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?», Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione. Un buon suggerimento viene da Barack Obama: nel discorso d’addio ha rievocato il “community organizing” con cui si fece le ossa a Chicago, una tecnica di empowerment della cittadinanza assai efficace, poco nota in Italia (per saperne di più communityorganizing. it).
L’importante è non restare inerti. Mosse e tante altre guide possono aiutarci a ragionare sul passato, che è uno strumento vivo a nostra disposizione, non un presagio di condanna.
Benedetta Tobagi La Repubblica 14 febbraio 2017
vedi: Dare il nome alle cose
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