«La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza». «E un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza». Le parole pronunciate da Papa Francesco il 21 marzo di due anni fa davanti ai giovani di Scampia risuonano ancora nelle nostre menti e nei nostri cuori. «Peccatori sì, corrotti no», cioè il peccato si può perdonare, la corruzione no, aveva già detto il pontefice, con ancora maggiore asprezza, l’11 novembre 2013, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta, puntando l’indice sui corrotti, uomini dalla «doppia vita», simili una «putredine verniciata». Il messaggio è chiaro: la corruzione è il contrario della cristianità, la negazione dell’altro, il ripudio dell’umanità solidale, il tradimento del concetto di Stato. La corruzione, come ricorda Papa Francesco nel suo Guarire dalla corruzione, è il frutto arido di una visione sterile del mondo che antepone l’utile superficiale del singolo alla bellezza profonda dello stare insieme.
Una visione difficile da contrastare perché dotata di radici solide e robuste, forte di un sua capacità dottrinale, corroborata da un sistema di (dis)valori luccicante e seducente. In fondo la corruzione è un’anti-cultura, con una sua etica rovesciata. Una cultura di stampo familistico-lottizzatorio che, mirando alla conservazione, all’immobilismo e alla perpetuazione dei privilegi tra gli aderenti al gruppo, ha paura della vera cultura, che, come ricordato da Giovanni Impastato, in Oltre i cento passi, è cambiamento, diversità, affermazione del talento, incontro tra uomini, amore per quel «grande miscuglio di diversità» che è, per Hanna Harendt, l’umanità.
Ma, al di là delle facili litanie e delle reazioni di facciata, la crociata di Papa Bergoglio intercetta davvero un sentimento diffuso? Il cittadino comune prova nei confronti della corruzione il ribrezzo di cui parla il pontefice? Le mazzette in tasca del politico ci spaventano quanto un furto a casa nostra? Ci permettiamo di dubitarne. La ragione è culturale, in una duplice dimensione.
In primo luogo è una ragione culturale in senso etico. Non tutti avvertiamo in modo adeguato il disvalore morale delle condotte corruttrici, non comprendiamo fino in fondo che la rapina del denaro pubblico, al pari della sottrazione del portafoglio privato, «è un male». Il dilagare della corruzione evidenzia che la sua radice è un problema che non riguarda solo i politici, gli amministratori e i potenti, ma attraversa per intero una società che, anche nei suoi strati più lontani dal public power, non è abbastanza sensibile ai valori della legalità, del bene comune, dell’etica pubblica e della meritocrazia.
E’ nota la teoria del sociologo americano Edward Banfield che rinviene le fondamenta della nostra corruzione in quel familismo amorale che antepone gli interessi di parenti e amici al bene pubblico e alla forza della legge. La penna caustica di Flaiano sintetizza il concetto definendo l’Italia «patria di santi, poeti, navigatori… e di figli, fratelli, cognati…». Di questo retaggio dobbiamo liberarci, comprendendo e spiegando che il benessere dei nostri cari ha senso solo se si iscrive in un ordine sociale che valorizzi i meriti di ognuno e si faccia carico degli interessi degli ultimi. Va scoperta, con Tito Livio, l’importanza preziosa del bene comune, «grande catena che tiene insieme gli uomini nella società».
La seconda deficienza culturale è conoscitiva, attiene alla mancata percezione della gravità degli effetti della corruzione sulle vite quotidiane di ognuno. Una miopia storica non ci consente di capire che la corruzione non solo è un male, ma «fa anche molto male».
Noi cittadini abbiamo paura di un topo d’appartamento, di un ladro di motorini, di una truffa, molto meno di una tangente incassata da un amministratore infedele. Un appalto pilotato, una licenza comprata, un concorso truccato, una sentenza venduta ci sembrano entità estranee ai nostri destini, vicende che toccano i soldi pubblici, non le nostre finanze personali. Eppure quei denari sono anche nostri, lo Stato siamo noi, la res pubblica è una ricchezza comune: l’immoralità nella gestione della cosa pubblica danneggia tutti.
Per questa ragione nel libro La corruzione spuzza abbiamo spiegato, con casi concreti ed esempi emblematici, che la maladministration produce effetti tangibili e devastanti nelle nostre vite. La corruzione vuol dire morti in ospedale, strade assassine, palazzi di burro, ambiente avvelenato, denatalità senza precedenti, disoccupazione galoppante, università senza valore, fuga di cervelli, violazione dei diritti umani, azzeramento del principio costituzionale di uguaglianza, furto del domani ai danni dei nostri figli.
Il contrasto al malaffare corruttivo necessita allora di una reazione-rivoluzione culturale immediata e diffusa, del coinvolgimento militante dei cittadini onesti, chiamati a essere consapevoli della gravità, pratica oltre che etica, del problema. E’ necessario rimboccarsi le maniche e lottare tutti, senza delegare la lotta solo a magistrati e forze di polizia. «A che serve – ammoniva Don Milani – avere le mani pulite se le si tengono in tasca?».
La reazione è tanto più necessaria se si considerano i caratteri che differenziano la corruption del terzo millennio rispetto al passato. E’ una corruzione più ramificata, meno visibile, meglio organizzata, capace di intrecciare alleanze opportunistiche con la criminalità, se non addirittura di strutturarsi in forme associative e di agire con metodi mafiosi. Una corruzione demonetarizzata e dematerializzata in cui non ci sono più passaggi di denaro, ma giri vorticosi e impalpabili di favori, piaceri e aiuti.Una corruzione che non è di norma finalizzata all’improprio finanziamento della politica, ma si atteggia non di rado a pura robbery, furto diretto al mero arricchimento personale.
Una fenomeno in cui la politica non assume più un ruolo dominante di Tangentopoli ma quello servente del Mondo di Mezzo. Una patologia che non si limita alla sfera pubblica e ai confini nazionali, tanto da porre sul tappeto l’esigenza di un contrasto più adeguato alla corruzione tra privati e alla corruzione nazionale e internazionale.
Il pilastro principale della lotta alla corruzione non può che essere l’educazione, un’azione pedagogica in grado di prosciugare i pozzi culturali dell’immoralità pubblica. Le famiglie, le università, la letteratura, i luoghi di culto, il mondo associativo e il quarto potere giornalistico e mediatico devono fungere da agenzie educative. Senza dimenticare che, come ammonisce ancora il Papa, educare significa trasmettere non solo saperi, ma anche modi di fare e, soprattutto, valori.
Dobbiamo essere consapevoli che la lotta alla corruzione (penale ma anche morale) è necessaria oltre che giusta. E che al motto machiavellico che vede nel rispetto della legge il lusso degli stupidì va preferito di gran lunga l’insegnamento ciceroniano secondo cui essere onesti non solo è bello ma è anche profondamente utile. Non serve neanche al corrotto arricchirsi in modo illecito o ottenere altri profitti ingiusti, se suo figlio rischia poi di non trovare una culla salvavita per nati prematuri perché i soldi pubblici sono stati utilizzati per fini diversi dalla salute dei cittadini.
Raffaele Cantone e Francesco Caringella il messaggero 30-05-2017
Il libro: Raffaele Cantone, Francesco Caringella, La corruzione spuzza. Tutti gli effetti sulla nostra vita quotidiana della malattia che rischia di uccidere l’Italia, ed. Mondadori 2017, € 18,00
vedi: Corruzione rileggere Sciascia oggi
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