Diario. 1939-1945, gli anni che hanno segnato l’Italia repubblicana. «L’eredità» di Corrado Stajano
Si può camminare sull’orlo di un precipizio senza neppure accorgersene. Ci si può avviare verso una catastrofe a occhi chiusi, senza neppur coglierne i segni. Ci sono voluti gli occhi di un bambino e i ricordi di un anziano, compresi in un’unica voce narrante, per darci la misura di questa nostra maledizione (personale e nazionale). È questa la sensazione attualissima – sconvolgente – che ho provato leggendo il più recente libro di Corrado Stajano, appena pubblicato dal Saggiatore. L’Eredità (pp. 165, euro 18) di cui parla – e che dà il titolo al libro – è appunto questa storia depositata dentro di noi, costellata di tragedie reali e di normalità virtuali. D’illusioni attese e di rovine concrete. La demagogia della politica (meglio: del Potere) e le dure repliche della Storia.
AL PRINCIPIO E AL CUORE del libro il 1939 (la madre di tutte le tragedie). Un giorno di maggio, anzi, un pomeriggio. In una città di confine, Como. Un bimbetto in divisa da «Figlio della Lupa», inquadrato alla meglio con gli altri scolari, agita la bandierina tricolore distribuita dal «maestro nero», in orbace, in attesa del grande evento, la limousine di Stato con sopra due signori in divisa, coperti di decorazioni, le aquile dorate sui cappelli, che passano veloci, sorridenti e salutanti, tra la gente in festa, e sono già oltre, in un amen.
Erano Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop, si preparavano a firmare il «Patto d’acciaio», l’alleanza mortale dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, («su un foglio di carta la giovinezza perduta di milioni di uomini») ma lì, a quell’angolo di strada, tra la cappelleria Rossini e la Casa dei filati col suo odore di vecchia bottega, sembravano il ritratto della bonomia e dell’amicizia. Appena il tempo di ricordare frammenti di quella «tragica estate mascherata di serena letizia», i caffé eleganti affollati, l’orchestrina che suona canzoni leggere. E subito la scena cambia: le strade del centro di Milano devastate dalle bombe dei Lancaster alleati, macerie ovunque, con le case che mostrano impudiche i propri interni.
ORA IL BAMBINO fattosi ragazzo – sono passati quattro anni appena – si aggira attonito nei luoghi consueti caduti in rovina, Palazzo Marino sventrato. corso Magenta una grattugia, piazza San Fedele irriconoscibile. Sbircia tra i muri diroccati della «bella basilica delle Grazie», dove il Chiosco dei morti distrutto rivela, dallo squarcio di un muro, lo spettacolo leonardesco de L’ultima cena, miracolosamente sopravvissuta. È l’agosto del ’43. Tra poco Milano si riempirà di fabbriche dell’orrore, villa Triste con i sadici della Banda Koch, l’Albergo Regina a quattro passi dalla Scala, le urla dei torturati dalle SS. Una catena di sofferenze, prima che la festa d’aprile del ’45 ponga fine al terrore.
Sullo sfondo, la sfilata di ritratti, uomini e donne del regime, carriere folgoranti in camicia nera all’insegna della fedeltà al Duce e repentine cadute in disgrazia: come quella di Giuseppe Terragni, l’architetto del razionalismo fascista, ingenuo adoratore di un «fascismo onesto», passato dagli altari della Patria alla polvere e al ghiaccio della ritirata di Russia, da cui uscirà inebetito e disilluso per morire solo, a 44 anni, di trombosi alla vigilia del 25 luglio. O come quella di Margherita Sarfatti, la «Maga Circe del Fascismo», riverita e omaggiata amante del Capo, onnipotente signora dei Salotti letterari prima di essere emarginata dalla volubilità di Lui e infine travolta dalle leggi razziali. Una successione di mondi caduti. Le icone della fatuità del successo maturato all’insegna del servilismo e della dedizione a un uomo solo al comando.
È QUESTA L’EREDITÀ – la legacy, direbbero gli inglesi, il «lascito» – che dovremmo riattivare ogniqualvolta assistiamo a una parata, un Vertice, una Conferenza internazionale o un proclama governativo. Per imparare a guardar dietro ai sorrisi di circostanza o alle fotografie di gruppo. Per tentare di vedere il sotterraneo lavoro della Storia al di là delle verità di comodo o di regime, siano le conclusioni di un G7 o le Conferenze stampa di un Premier.
Quando Schauble parla di Grecia. Quando Theresa May parla di Brexit. Quando Donald Trump parla di America great again. Quando Matteo Renzi parla dell’Italia che «cambia verso». Quando tutti insieme a Taormina parlano di clima. E ancora a quell’eredità dovremmo tornare, col pensiero, quando – tra un bail-in e un bail out di banche – leggiamo sui giornali la minaccia del Governo di chiusura dei porti in faccia ai soccorritori dei migranti, dopo aver ascoltato un Ministro dell’Interno che si dice «di sinistra» vantare gli accordi feroci con le «40 tribù» libiche del confine col deserto per respingervi i flussi di profughi.
DOVREMMO DISSEPPELLIRE dalla memoria – pure questo fa parte del «lascito» descritto da Stajano – quanto, meno di un secolo fa, fecero sulla stessa costa libica da cui partono oggi i barconi baldi italiani come Graziani e Badoglio: i 40.000 ammazzati in operazioni di repressione, e gli altri 100.000 in tutta la Cirenaica, a cui aggiungere lo sterminio di Etiopia, con l’uso sistematico dei gas, iprite, fosfene, i gioielli della nostra chimica. Anche nel convivere, silenziosi o inerti, di fianco a tutto ciò sta il nostro «danzare giulivi» sotto la «cappa nera» che ci oscura il futuro, in un tempo in cui – direbbe Montale, oggi come allora – «la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei dadi più non torna» (La casa dei doganieri, 1939).
Marco Revelli il manifesto 7.7.17
vedi: "L'Italia non ha mai chiesto scusa alla sua Africa"
La peste della memoria inutile
La storia come maestra di vita non è più la bussola dei politici