Parte del discorso che PIERO CALAMANDREI (1889- 1956), il 17 gennaio 1954, al Teatro Eliseo di Roma, pronunciò nel corso di una manifestazione dedicata alla famiglia Cervi, presente il papà ALCIDE CERVI (1875- 1970) con le sue sette Medaglie d’Argento che l’Italia della Resistenza aveva conferito alla memoria dei suoi Figli. Il 28 dicembre 1943, condannati a morte da un tribunale della RSI, furono fucilati a Reggio Emilia, nel poligono di tiro, i SETTE FRATELLI CERVI simbolo ed espressione di un’ Italia che rinasceva e si batteva per ridare al Paese, dopo la lunga dittatura fascista, libertà e dignità.
Per iniziare degnamente queste celebrazioni decennali della Lotta di Liberazione, penso che nessun fatto avrebbe potuto essere scelto più significativo di quello dei fratelli Cervi; anzi della famiglia Cervi. Questo fatto meglio di ogni altro riassume in sé gli aspetti più umani, più naturali e più semplici della Resistenza, e insieme i suoi aspetti più puri e spirituali e direi perfino più celestiali: questa famiglia patriarcale di agricoltori emiliani, composta del padre contadino e di sette figli contadini, la quale subito dopo l’armistizio, nell’ora delle generali perplessità, si trova tutta unita e concorde fino dal primo giorno, senza un attimo di esitazione, dalla parte della libertà e della riscossa, dando l’impressione più che di un gruppo di uomini tenuti stretti da un comune senso di solidarietà, di una perfetta fusione di volontà, da cui nasce una ripartizione di compiti coordinati da una coscienza unica, e il senso di un’unica responsabilità, quale non può trovarsi che in una persona sola.
Con la stessa naturale concordia con cui fino a ieri avevano coltivato i loro campi, con la stessa pacata e consapevole unanimità, senza iattanza e senza turbamento, la famiglia tutta unita va incontro alla morte: e quando, dopo lo sterminio dei sette figli, il vecchio Cide torna solo alla terra, unico uomo settantenne rimasto con le donne e coi bambini, ecco che in lui è ancora presente la famiglia, come se i sette figli lasciandolo avessero moltiplicato per sette le sue forze, come se avessero restituito a questo vecchio, insieme col dolore, la forza giovanile ricevuta da lui. La tempra di questa famiglia è tutta nella frase detta da Cide: «Uno era come dire sette, sette era come dire uno». Come dire uno.
Quest’uno, il babbo, il nonno, il patriarca, il ceppo, è qui: in mezzo a noi. È come dire che qui in mezzo a noi sono presenti, se c’è lui, i sette figli: le sette Medaglie d’Argento assegnate alla memoria dei sette figli sono fuse in questa Medaglia d’Oro destinata a lui. Se c’è lui, c’è con lui tutta la famiglia: ed è proprio questa famiglia partigiana che noi oggi qui onoriamo viva e presente. Gli assassini hanno potuto trucidare i sette fratelli, ma la famiglia non sono riusciti a distruggerla: il ceppo era di razza solida, le radici erano ben fonde nella terra; la famiglia è stata più forte di loro.
Il fatto della famiglia Cervi ha, nella sua semplice realtà, tutti gli elementi per diventare leggenda. La nostra storia anche recente conosce coppie gloriose di fratelli caduti insieme per la libertà: i fratelli Bandiera, i fratelli Rosselli. Ma il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante per la stessa causa, nella nostra storia non c’era ancora: forse non c’è nella storia di nessun popolo.
Per ritrovar qualcosa che somigli a questo sterminio familiare, bisogna risalire ai miti della tragedia greca, ai fantasmi biblici o omerici; ai figli di Niobe, ai sette Maccabei, ai sette fratelli di Andromaca. Ma i fratelli Cervi non sono poesia: sono storia, sono la nostra storia. E prima che la loro storia sfumi e si trasfiguri nei cieli dell’epopea, come la narreranno i nipoti dei nipoti, rievochiamola ancora qui, tra noi, nella sua nuda realtà; consoliamoci, noi che l’abbiamo vista coi nostri occhi, di appartenere ad un popolo che sa trovare ancora, nella sua semplice bontà umana, questa verità più alta e più schietta d’ogni poesia.
Forse c’è qualcuno che preferirebbe lasciar da parte queste rievocazioni, qualcuno al quale le ombre dei fratelli Cervi fanno paura. Ma non ombre, stelle come li simboleggia la medaglia: c’è gente a cui queste stelle fanno paura; perché sono stelle che segnano, in cielo, le vie dell’avvenire. Preferirebbero non sentirne più parlare. Dicono: «Non rievochiamo gli orrori della guerra civile: gli uni valevano gli altri. La storia tutto spiega, tutto livella. Pacificazione, perdono, oblio: non parliamone più». Respingiamo questi ipocriti predicatori di insidiosa indulgenza. Il perdono non si nega ai pentiti; ma occorre il pentimento, l’umiltà del pentimento.
Quando gli autori di quelle catastrofi non solo tornano indisturbati in libertà, ma invece di starsene in disparte cauti e discreti osano riprendere l’antica tracotanza per gettar fango sulla guerra partigiana, allora noi abbiamo il dovere di rievocare qui i nostri morti, e di rinnovare qui, dopo dieci anni, il giuramento di non tradirli. È vero che la storia insegna come il progresso umano si svolga attraverso continui urti di forze contrapposte, e spiega quali furono in quella dialettica i moventi degli uni e degli altri. Ma non rinuncia a giudicare da che parte furono i valori umani e sociali, e da che parte furono gli istinti bestiali della cieca barbarie.
La storia è fatta di una serie continua di scelte: anche l’Italia, dieci anni fa, fece una scelta. Tra la libertà e la servitù, tra il privilegio e la giustizia, tra l’umanità e la ferocia, il popolo italiano fece la sua scelta; e questa si chiamò Resistenza. Questa è ancora la nostra scelta, questa sarà la scelta del nostro avvenire. Da una parte i fratelli Cervi, da quell’altra i loro assassini. Noi siamo dalla parte dei fratelli Cervi. Questa è la storia della famiglia Cervi. Ed ora voi capirete perché vi ho detto da principio che in essa c’è come la sintesi delle virtù più preziose della Resistenza.
Vi è prima di tutto, nel fatto di questa famiglia, un’ espressione esemplare di quella spontaneità popolare che è stata l’aspetto più sorprendente e più commovente della Resistenza. Mentre gli eserciti della monarchia si disfacevano, mentre gli stati maggiori nascondevano le divise gallonate, gli umili, i borghesi, i contadini, sentivano che era venuto il momento di ritrovarsi, di resistere, di provvedere da sé a salvare la libertà e la dignità del proprio Paese. Questa fu la miracolosa scoperta della Resistenza: aver ritrovato ciascuno, al centro della propria coscienza individuale, il senso della responsabilità civile dei cittadini, e insieme il senso della solidarietà sociale verso tutti gli oppressi.
Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e l’universale indivisibilità di essa: questa scoperta dell’indivisibilità della libertà e della pace per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento dell’uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.
E qui c’è un secondo carattere da mettere in evidenza nel fatto dei fratelli Cervi: questa spontanea e subitanea partecipazione alla Resistenza dei ceti contadini, che costituì un fatto nuovo nella storia del nostro Risorgimento. Nel Reggiano e nel Modenese i primi nuclei animatori della Resistenza, quelli che dettero la prima spinta, furono contadini: i fratelli Cervi erano contadini: fu la campagna a dare il primo esempio alla città. Mentre il primo Risorgimento italiano fu opera soprattutto dei ceti medi, mentre i moti di rivendicazione sociale ebbero sempre il loro impulso iniziale dagli operai delle fabbriche, il richiamo della Resistenza fu subito udito anche dagli uomini delle campagne.
La patria – come giustamente è stato scritto da concetto astratto e lontano, da privilegio delle classi dominanti, stava così discendendo in ogni casolare e in ogni vallata, e sempre più si identificava con la difesa di quella terra, con la libertà e dignità del proprio lavoro, speso tutto per fecondare quelle zolle. Quelle zolle, sudate e seminate, lavoro diventato solco, erano la patria.
E un’altra cosa c’è da ricordare: che per i contadini la Resistenza si presentò da principio come un’opera di carità, di ospitalità, di fratellanza. Giungevano da tutte le parti attraverso le campagne i prigionieri fuggiaschi, inseguiti come selvaggina dalla polizia fascista: arrivavano i giovani ribelli che si rifiutavano di piegarsi al servizio degli invasori. Bussavano alle porte dei casolari. Quelle umili porte si aprivano in silenzio; i fuggiaschi trovavano in ogni catapecchia un pane e un letto. Obbedivano in questo modo, i contadini, a un’antica tradizione di ospitalità, al dovere di asilo verso il fuggitivo, al sentimento di carità cristiana che ordina di dare alloggio ai pellegrini.
Ma obbedivano anche a sentimenti nuovi, che si destavano in loro, di solidarietà internazionale tra tutti i sofferenti, di pacificazione fraterna tra i perseguitati di tutti i Paesi e di tutte le lingue. C’erano affissi in ogni villaggio bandi minacciosi: «chiunque dia rifugio a prigionieri evasi sarà fucilato secondo la legge marziale». Che importa? Quando di notte un fuggitivo sparuto e stracciato bussava all’uscio, nessuno pensava alla legge marziale: se avevano fame gli si dava un pane; se era stanco gli si dava un giaciglio; se era ferito, le donne lo curavano. Quando un disperso chiedeva ospitalità, non gli si chiedeva di che Paese fosse: l’ospite era sacro. Il povero divideva il suo pane col più povero.
Da casa Cervi in meno di due mesi passarono più di ottanta fuggiaschi di varie nazionalità, americani, russi, irlandesi, inglesi, francesi, polacchi, sudafricani, anche disertori tedeschi. Quelli validi, dopo essersi riposati e rifocillati, proseguivano per la montagna, dove i fratelli Cervi provvedevano a indirizzarli verso i passi sicuri; quelli feriti o malati erano ospitati fino a che non erano guariti. Un capitano dell’aviazione americana, ferito alle gambe durante un atterraggio forzato, rimase venti giorni nella loro casa, assistito dalle donne e curato clandestinamente da un medico locale.
Questi furono i misfatti per cui i fratelli Cervi furono fucilati: per aver obbedito a questo umano impulso di solidarietà fraterna verso il dolore, per questo desiderio di pace e di carità verso gli oppressi di tutti i popoli. Questo è uno dei caratteri più significativi della Resistenza italiana nelle campagne: questa Resistenza nata dalla bontà, dall’umanità del nostro popolo. Gli stranieri lo sanno, lo hanno appreso, quelli che ci sono stati, per loro esperienza. Così in tutta Italia, ovunque sono passati gli orrori della guerra.
vedi: 7 fratelli per la libertà: I FRATELLI CERVI
La storia dimenticata dei 7 fratelli Cervi morti da partigiani