Un acuto editoriale di Leonardo Becchetti su ‘Avvenire’ («Non senza competenze», 19 agosto 2018) ha messo a fuoco il corto circuito tra il vasto consenso politico di comunità organizzate con bassa capacità di elaborazione delle conoscenze e le competenze degli esperti. L’articolo mi ha rimandato alla lettura di un recente prezioso libretto di Alberto Guasco in cui si ripercorre la folgorante meteora del ‘Fronte dell’Uomo qualunque‘, costola politica dell’omonimo giornale di Guglielmo Giannini (‘Le due Italie. Azionismo e qualunquismo‘, Franco Angeli editore).
Saggio curiosamente attuale, perché il filo conduttore è – come dice il titolo – il raffronto tra quella prima grande esplosione di populismo nell’Italia che usciva dalla guerra (il giornale di Giannini, nel maggio 1945, ebbe una tiratura di 850.000 copie) e i rappresentanti di quel Partito d’Azione (la cui parabola storica sarà speculare a quella dell’Uomo qualunque) che costituivano il bersaglio preferito dei qualunquisti: gli intellettuali, gli ‘antifascisti di professione’, i professori, i politici senza popolo (che, chiamati a raccolta da Parri, si ritrovano «in una cabina telefonica», scoprendo di starci «tutti, comodissimamente»).
Giannini trova un terreno già arato e pronto per essere seminato: un popolo, spesso silente o blandamente fascista durante il Ventennio, che aveva subìto la guerra, ma che vedeva con diffidenza coloro che, a viso aperto, avevano combattuto il fascismo e animato la Resistenza.
Un popolo che, già a metà del ’45, soprattutto al Sud, guardava con insofferenza ai partiti e agli uomini dell’antifascismo, in particolare a quelli tornati dall’esilio: visti come coloro che avevano fatto il tifo per gli aerei inglesi che bombardavano le nostre città e ora si accingevano a governare l’Italia, «dividendosi le poltrone».
A quel popolo – che desidera soltanto tornare alle proprie famiglie, ai propri interessi, alle abitudini di sempre – Giannini si rivolge parlando la sua lingua: «Vogliamo andare a teatro, uscire la sera, recarci in villeggiatura, trovare sigarette, ordinarci un abito nuovo, salire in autobus, non fare la guerra, salutare chi ci pare, non salutare chi non ci pare». In una serie infinita di semplici «basta!» e «abbasso!», Giannini si pone a difesa del cittadino medio contro tutti gli altri («In Italia non ci sono che due forze politiche: L’Uomo qualunque e i Cln»); rivendica un dialogo diretto – senza mediazione dei partiti – con il popolo vilipeso e stufo della politica; storpia il «Vento del Nord» in «rutto del Nord»; ribattezza Ferruccio Parri come «Fessuccio parmi»; indica come nemici gli «u.p.p.» (uomini politici professionali).
Soprattutto, predica un governo di tecnici, guidato da un amministratore delegato non direttamente espresso dai partiti: «Uno Stato moderno, oggi, non ha bisogno che di amministratori». È con questo armamentario propagandistico che Giannini porta all’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946, trenta deputati (provenienti soprattutto dal Sud, dove l’Uomo qualunque raggiunge spesso percentuali del 20%, essendo il primo partito a Palermo e il secondo a Roma).
Eppure, questa costante esaltazione del «tecnico apolitico» è, essa stessa, una scelta politica: che ha, come altra faccia della stessa medaglia, il politicantismo del ‘politico incompetente’.
È quella che, già nel giugno ’45, Norberto Bobbio indicava come «l’inevitabile tendenza dell’antipolitica a farsi politica», senza però possedere la cultura e gli strumenti tecnici per governare.
È un meccanismo che si autoalimenta: perché, quando le velleitarie pretese dell’antipolitica rimarranno insoddisfatte, deludendo il sentimento popolare che le ha gonfiate, aumenterà ancor di più l’indifferenza verso la politica e verso ogni impegno civile e sociale. Ed è qui che l’analisi di Becchetti e il suo auspicio alla ricerca di un «dialogo paziente e costante tra gli esperti e la società civile» si fanno preziosi.
Per quanto riguarda Giannini, sappiamo come andò a finire. Nel mancato passaggio dalla intelligenza di captare e dare voce a uno stato d’animo popolare alla capacità di esprimere un’abilità anche tecnica di governo e di dominio della complessità, venne fuori, inesorabilmente, la povertà politica e culturale dell’Uomo qualunque. Che, in realtà, fu mai chiamato a governare: perché, tra il ’46 e le elezioni dell’aprile ’48, dissipò in divisioni e abbandoni il proprio patrimonio elettorale.
Con l’imporsi delle logiche della Guerra Fredda, l’Uomo qualunque si dissolse come neve al sole. Giannini aveva, come avversari, da un lato, De Gasperi ed Einaudi, dall’altro, Togliatti e Nenni. Vinsero De Gasperi ed Einaudi: l’Italia fu uno dei fondatori dell’Europa, affondò definitivamente le sue radici nell’Occidente, conobbe il miracolo economico.
Poi, con l’incontro fra la Dc e i socialisti, voluto da Fanfani, Moro e Nenni – in un confronto duro, ma alla fine costruttivo, con i comunisti – ci fu, insieme a una mobilità sociale mai prima conosciuta e oggi ormai smarrita, la più feconda stagione riformatrice del nostro Paese: dall’edilizia popolare alla scuola media unificata (che fece sedere sullo stesso banco i figli dei ‘Luigini’ e i figli dei contadini); dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica allo Statuto dei lavoratori e alla riforma del diritto di famiglia. Chissà cosa sarebbe accaduto se al governo fosse andato l’Uomo qualunque.
Paolo Borgna Avvenire 14/9/2018
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