Intervento del professor Ivano Dionigi tenuto a “Saperi pubblici”, l’iniziativa del 1 e 2 ottobre 2018 in piazza Verdi a Bologna.
Viviamo in un’epoca di paradossi: a fronte della globalizzazione e del suo profeta, Internet, reagiamo con un apparato di veti, blocchi, muri di cemento e di pregiudizi; a fronte della moltiplicazione dei problemi economici, sociali e morali operiamo una riduzione e un impoverimento delle parole; a fronte del maximum dei mezzi di comunicazione sperimentiamo il minimum di comprensione, come se le parole subissero una sciagurata autonomia rispetto alle cose.
L’evidenza di queste contraddizioni si fa maggiore e intollerabile nello spazio dell’Università, naturaliter aperta al mondo: perché essa dà del tu alla storia, promuove tutti i saperi, forma i cittadini del mondo. Mi ha sempre colpito e allarmato l’uso improprio e mistificato del linguaggio: perché sono convinto che le parole non solo interpretano ma cambiano la realtà; soprattutto al giorno d’oggi, quando nel rinnovato impero della retorica i colpi di stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi.
Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente, diceva Platone, oltre a essere una cosa brutta in sé “fa male anche all’anima“ (Fedone 115 e). Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica: con la stessa parola indichiamo cose diverse, e con parole diverse indichiamo la stessa cosa, e soprattutto alcune parole vengono impiegate e addirittura inventate per false equivalenze. Si pensi ai tanti neologismi, in particolare di ambito economico e militare, quali “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione.
Ora l‘escalation dell’ambiguità del linguaggio non si ferma, anzi accelera, investendo l’ambito politico e istituzionale, per cui parole che ritenevamo indivise e indivisibili diventano proprietà di una parte; e valori che ritenevamo unici e insostituibili vengono sfigurati o addirittura negati.
Come la parola dignità, confiscata da una maggioranza e tradotta in un decreto; la parola politica, derubricata a contratto tra due parti; la parola pace, confinata all’ambito fiscale e ridotta a sinonimo di condono; la parola rifugiato, identificata con clandestino; la parola straniero, deprivata della sua carica umana e sacra di ospite (hospes) e ridotta al nemico (hostis): sarà un caso che l’unico che tratta peggio il profugo Ulisse è un mostro, Polifemo?
la parola patria, “la terra ereditata dai padri”, immiserita a proprietà privata; la parola popolo, intesa non più come fondamento del potere e del bene comune ma come esaltazione dei soli diritti e promozione delle pulsioni individuali, in una sorta di niccianesimo di massa; quel popolo che, incurante della legge sovrana, eliminerà Socrate; che, privo di discernimento, preferirà Barabba a Cristo; che, preoccupato più della consolazione che della cura, sceglierà – dice Platone – il retore al posto del medico.
Già Tucidide, alla vigilia della guerra del Peloponneso, individuava nell’uso ingannevole della parola il sovvertimento della vita civile: «Pretesero persino di cambiare la consueta accezione delle parole in rapporto ai fatti, sulla base di ciò che ritenevano giustificato. La temerarietà sconsiderata fu ritenuta coraggiosa solidarietà di partito; la prudente cautela, speciosa vigliaccheria; l’equilibrio, ammantata codardìa; l’assennatezza in tutto, inerzia verso tutto; l’impetuosa impulsività fu accreditata a un temperamento virile; il riflettere con calma, in nome della sicurezza, a suadente, pretestuosa riluttanza» (La guerra del Peloponneso 3, 82,4).
Era la stagione dei Sofisti, i nuovi maestri di retorica, i quali ai princìpi della scienza (episteme) e della verità (alétheia) sostituirono i criteri dell’opinione (dóxa) e del verosimile (eikós), nell’intento di fare apparire più validi i ragionamenti meno validi.
Quid nunc? Da dove ricominciare? Perché di questo si tratta. Io direi dal “discorso comune”, da quel koinós logos che fonda la nostra natura e determina il nostro destino individuale e politico; e che nell’incontro con l’altro si fa dialogo, confronto di ragioni diverse.
A noi professori il compito di professare il vero delle nostre discipline, vale a dire la complessità delle cose del mondo. Allora il demografo ricorderà che ogni minuto nascono 59 uomini di colore e poco più di mezzo italiano; il genetista che tutti noi europei bianchi, civili e colti proveniamo da antenati africani; lo studioso dell’antichità che la fortuna di Roma – come testimonia Tacito negli Annali (11,24) – si deve alla concessione della cittadinanza a tutti coloro che provenivano da ogni parte del mondo, mentre Sparta e Atene, pur così potenti militarmente, decaddero proprio per non aver accolto e integrato gli stranieri.
Alle ragazze e ai ragazzi della nostra Università che hanno ideato questa due giorni, mi sento di dover chiedere scusa e di fare un appello. Scusa perché non siamo riusciti a consegnare loro un mondo migliore: l’appello a impegnarsi in politica. Cominciando col meditare sulla parola più bella creata e trasmessa dalla classicità: res publica, la cosa di tutti.
in Repubblica 1/10/2018
Vedi: L'ondata d'imbarbarimento che travolge la democrazia