La storia dell’immigrazione a Washington. Il festival delle letterature migranti.
Un tempo i migranti eravamo noi, orde di italiani in fuga. Scappavamo per le stesse ragioni che oggi spingono migliaia di disperati verso le nostre coste, e spesso ci comportavamo come loro, nel bene e nel male. Eravamo soggetti alle stesse discriminazioni, e agli stessi atti di compassione; commettevano gli stessi crimini, e offrivamo gli stessi contributi di eccellenza, quando l’integrazione alla fine ce lo consentiva.
È la lezione, esaltante e triste, che si impara visitando il Museum on Italian Immigration, inaugurato dalla National Italian American Foundation la settimana scorsa nella sua sede di Washington, dedicata all’ex ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Peter Secchia.
Essendo la mostra curata dall’organizzazione che difende gli interessi degli italo-americani, uno si aspetta l’ovvio cedimento alla retorica. Invece no, la Niaf ha scelto di seguire la strada dell’onestà. Naturalmente il museo celebra i nostri miti, da Joe DiMaggio a Frank Sinatra, passando per Rocky Marciano e Fiorello LaGuardia, fino ai politici contemporanei come Leon Panetta, che da direttore della Cia guidò l’operazione contro Osama bin Laden.
Però non nasconde la realtà, ricordando quando all’inizio del secolo scorso circa tre milioni e mezzo di italiani sbarcarono a Ellis Island, e altrettanti arrivarono in Argentina, quasi tutti illegali. Tanti partiti dal meridione, ma molti anche dal Nord, perché i poveracci allora non stavano solo a Sud di Roma.
La chiamavano «l’isola delle lacrime», il punto di arrivo a New York. E in effetti si fatica a trattenere la commozione, vedendo le foto delle visite mediche sommarie a cui venivano sottoposti i nostri nonni. I dottori decidevano all’impiedi chi meritava di scendere e chi no, e particolarmente odioso era il giudizio affrettato che veniva dato sulla salute mentale dei migranti: «Ha lo sguardo strano, trema, è triste». Chi non passava questa mannaia, veniva subito rimesso sulla nave e rispedito a casa.
Per chi ce la faceva, invece, iniziava il lungo dramma dell’integrazione. Si capisce dalla vignetta di un giornale, che dipingeva così gli italiani in arrivo: loschi individui che si gettavano in mare, con la scritta «Mafia» stampata sulla testa, per assalire e invadere le coste di Manhattan. Perché così apparivamo agli americani anglo sassoni e protestanti: scuri di pelle, pericolosi, e cattolici, tratti che allora marcavano una differenza culturale non troppo lontana da quella che oggi notiamo negli africani o i musulmani.
E poi, per quanto odiosamente razziste fossero queste vignette, bisogna ammettere la realtà: è vero che in America abbiamo esportato eccellenze tipo Enrico Fermi, ma anche criminali come Al Capone. Alcuni italiani sbarcavano con l’intenzione di delinquere, e altri finivano per farlo.
Perché, come dicevano gli americani allora, gli immigrati sono portati fisiologicamente a violare la legge, e un loro reato fa molta più notizia di dieci commessi dai locali. Anche quando in realtà non erano colpevoli. Come a New Orleans, dove il 14 marzo 1891 undici italo-americani furono linciati dalla folla, che li accusava dell’uccisione del capo della polizia David Hennessy. Oppure come Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati in Massachusetts di una rapina che non avevano mai commesso, e giustiziati nel 1927 solo perché erano italiani e anarchici.
Del resto la nostra cattiva fama non era solo un mito, un errore, o l’effetto perverso del razzismo. Il museo della Niaf, ad esempio, ricorda senza reticenze anche la storia della «Mano Nera», una organizzazione di italiani dedita all’estorsione, di cui cadde vittima anche il probo detective del New York Police Department Joe Petrosino. La mafia invece esiste ancora, anche dopo la fine degli epigoni contemporanei tipo John Gotti, pur se negli ultimi tempi ha perso terreno rispetto alle organizzazioni russe, e soprattutto al narcotraffico latinoamericano.
Impossibile poi sorvolare sul fascismo, che abbiamo inventato noi, e quindi penderà sempre sulle nostre teste. Ad esempio con l’abuso degli italiani internati in Montana durante la Seconda Guerra Mondiale, perché considerati potenziali nemici, ma anche l’asilo offerto al maestro Toscanini, costretto a scappare dal suo Paese perché si rifiutava di suonare gli inni del regime all’inizio dei suoi concerti.
Superati questi pregiudizi, questi abusi, questi atti di puro razzismo, e anche quelli provocati dai nostri errori, è arrivata infine l’integrazione. Oggi gli italiani hanno conquistato la quarta carica dello Stato, con il capo della diplomazia Mike Pompeo, anche se magari la sua famiglia non sarebbe neppure entrata negli Stati Uniti, se il clima di oggi fosse esistito quando aveva lasciato l’Abruzzo.
Abbiamo dato all’America premi Nobel e campioni dello sport, attori e politici, e forse senza Sergio Marchionne un’icona americana come la Chrysler non esisterebbe più. Mario Cuomo sottolineava sempre che ogni giorno a New York si parlano oltre 140 lingue, e quindi la sopravvivenza civile è un miracolo quotidiano, frutto in parte dell’ipocrisia della correttezza politica, in parte della sopportazione, e in parte del contributo autentico, tangibile e positivo dato dagli immigrati. Se si mettono da parte i pregiudizi, e si concede loro la possibilità di integrarsi e mostrare il proprio valore.
Paolo Mastrolilli La Stampa 18.10.18
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