L’ultima frontiera è stata travolta, l’ultima protezione della vita privata è saltata. La diffusione di foto hard attribuite a una parlamentare del Movimento 5 stelle sancisce simbolicamente la fine della dimensione privata della vita così come era stata concepita, difesa, idealizzata, vissuta, tutelata nei secoli borghesi e nell’esperienza delle città: quando si diceva che «l’aria della città rende liberi», lontana dalle invadenze del villaggio pettegolo e prepotente, in cui tutti sanno tutto di tutti.
Ora è ancora peggio: tutto, ma proprio tutto è pettegolezzo morboso, tutto è pubblico, visibile, manipolabile, e non c’è ambito della vita, anche la più intima, la più inconfessabile, che possa sottrarsi alle intrusioni dell’occhio universale, senza distinzioni tra cittadini che hanno un ruolo pubblico e altri che non ne hanno.
Si consumano inutilmente tonnellate di carta con la scusa di sottoscrivere monumentali informative sulla privacy, ma la privacy, quella vera e non quella delle costose quisquilie burocratiche, non c’è più. Cancellata. Fatta a pezzi: è la dittatura di chi si occupa senza remore delle vite degli altri. È la catastrofe definitiva della vita privata determinata da tre concause. Concause fortissime, ed è difficile, quasi impossibile, tornare indietro da una deriva destinata a schiacciare ambiti che eravamo abituati a considerare zona franca, recinto sacro di affetti, pratiche, tendenze. Trasgressioni tra adulti consenzienti anche, perché no.
La prima causa è banalmente tecnologica. Con la tecnologia, tutta concentrata nelle dimensioni ridotte di uno smartphone, puoi far tutto, o quasi. Ma la tecnologia può far tutto di te, o quasi. Anzi, senza il quasi: la vicenda di Giulia Sarti dimostra che anche l’ombra di quel quasi si è dissolta per sempre.
Puoi spiare, ma sei spiato. Puoi entrare comodamente in relazione con gli altri e anche con gli sconosciuti, ma gli altri e gli sconosciuti, o anche le persone apparentemente più care, possono manipolare questa relazione senza rispetto.
Oppure, è bello pagare velocemente con il Bancomat la spesa del supermercato: ma qualcuno può sapere in modo altrettanto veloce cosa consumi, cosa mangi, cosa compri. Con il Telepass non si fanno le code per entrare in autostrada, ma qualcuno se vuole può infilarsi nella tua vita privata e sapere ogni tuo spostamento, a quale velocità, in quali tempi, con quali itinerari. Poi una carta di credito dirà cosa hai consumato in autogrill, quale albergo hai preso, e addirittura se hai ordinato la cena in camera, se ti piace bere, e che cosa, e quanto.
Con le mappe sullo smartphone puoi raggiungere qualunque località anche la più sperduta, ma un drone di Google con le sue mappe dettagliate e zoomando sui particolari, può coglierti mentre ti diverti in un picnic. E soprattutto con chi: anche questo è successo, mica è fantascienza. I tuoi dati sanitari, il tuo conto in banca, i tuoi consumi: tutto messo in un unico calderone tecnologico, una casa senza muri dove non ti puoi nascondere, come Winston Smith in «1984» di Orwell (1903- 1950).
Poi, seconda concausa: la soffocante ideologia della trasparenza, il sogno, anzi l’incubo del Panopticon di Jeremy Bentham (1748- 1832) studiato da Michel Foucault (1926- 1984), in cui un’autorità centrale, e anche un’opinione pubblica onnipotente e arrogante può esserlo, è chiamata a controllare qualunque inezia, sfumatura, chiaroscuro della tua vita.
L’ideologia della trasparenza è alimentata, mentre massacra la vita privata, da una nobile e buona Causa. Perché per esempio dovresti rendere segreto il tuo conto in banca, se stai a posto con il fisco, e se ogni centesimo che hai incassato è stato rendicontato, vidimato, passato al setaccio nella guerra santa contro l’evasione?
«Intercettateci tutti», è lo slogan di questa retorica della trasparenza assoluta, è l’invocazione di un controllo autoritario sulla vita privata, spesso alimentata dagli stessi giornali che si fanno un vanto di voler pubblicare ogni sillaba di intercettazioni dove sono coinvolti innocenti, non indagati, persone note da mettere alla gogna. È l’ideologia per cui bisogna sapere tutto, come nelle case di vetro accarezzate dalle architetture moderniste, in cui ogni penombra è vista come oscurità sospetta, spirito antisociale.
È qui che la fine della vita privata viene teorizzata, diventa una bandiera positiva. E non c’è limite all’invadenza pubblica perché l’opinione pubblica vorace di particolari non conosce limite, vuole fagocitare tutto, sospettare di tutto, schiacciare tutto in una macchina infernale legittimata dal mito della purezza.
Perché poi, terza concausa, quella macchina infernale riceve carburante dell’esibizionismo che i social veicolano in una misura mai vista, in proporzioni apocalittiche. Nell’orgia di clic, in cui ogni frammento della vita viene condiviso e messo in piazza, basta un clic di troppo e la macchina infernale ti inghiotte, e l’esibizionista che è in noi viene triturato, insieme agli ultimi lacerti della vita privata, un tempo baluardo di civiltà, di un difficile ma sano equilibrio con una vita pubblica che poteva ancora non essere un mostro famelico. Con i cellulari che esplodono per le immagini hard di una figura «importante», massacrata senza pietà.
Pietà l’è morta, e la vita privata con essa.
Pierluigi Battista Corriere 15 marzo 2019
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