Sulla questione del numero dei parlamentari rischia di giocarsi la possibilità di formare un governo, addirittura la prosecuzione di una legislatura, gracile e malandata, ma ancora nella sua prima infanzia. Ed è, oltre che un rischio, un paradosso: perché le categorie non sono riducibili a quelle di un “sì” o di un “no”, ad un semplice taglio lineare che non affronta nessuna delle questioni vere del tema.
I costituenti non hanno scelto un numero a caso per definire la composizione delle Camere, come nulla di quello che hanno fatto o scritto è stato casuale.
Né hanno, come sembrano proporre quelli che nel deserto della semplificazione populista sembrano i più riflessivi, sorteggiato un numero tra quelli che compongono il parlamento francese o tedesco, o addirittura nordamericano: trascurando il tipo di sistema istituzionale, la solidità, anche temporale, di una democrazia, eventuali precedenti di interruzione delle garanzie democratiche, la stessa morfologia di un territorio. Sì ,anche quella va considerata: la rappresentanza di un paese a forma di stivale bislungo ha altre esigenze rispetto a quella di territori compatti come quello iberico ,o tedesco , o francese.
Un procedimento complesso, quindi. Ma non basta: poi, quale funzione devono svolgere, questi parlamentari ? Quale tipo di rappresentanza devono assicurare agli elettori: quella di una democrazia delegata o, secondo un vezzo del momento, di una democrazia diretta, che fa di deputati e senatori dei semplici portavoce di volontà e decisioni in cui non hanno alcun ruolo sostanziale?
E da noi, oltre a questa non sottovalutabile differenza, la funzione legislativa la consideriamo ancora, come vuole la Costituzione, funzione parlamentare? O, come abbiamo spesso constatato, oramai acquisizione governativa, per cui deputati e senatori sono dei semioccupati che timbrano leggi recapitate direttamente da palazzo Chigi , quando va bene?
Come retribuirli: come dirigenti dotati di responsabilità, o impiegati di concetto, inteso come categoria burocratica senza il contenuto del termine? O lavoratori manuali, tra gli specializzati e quelli generici? E, sia che rappresentino autorevolmente gli elettori o ne rechino passivamente i desideri e le proposizioni, devono essere scelti dagli stessi elettori o da piccole oligarchie irresponsabili, spesso nemmeno di eletti, ma in realtà oggi i veri ed unici rappresentati dai parlamentari?
Può servire, a illustrare gli obiettivi dei tagliatori parlamentari, l’obiettivo manifestato orgogliosamente dal ministro bifronte Fraccaro, metà ministro di questo sistema, metà proiettato verso forme di democrazia diretta spinte: con questa “ riforma”, tornano a casa un terzo dei fannulloni di queste Camere? È un calcolo indicativo, o fannulloni è la definizione dei parlamentari delle nostre Camere?
I quesiti sono appena agli inizi , sono dolorosi , e ci limitiamo a questi. Davvero si può pensare di definire il numero dei nostri parlamentari in questo modo primitivo e semplificatorio? Non sarebbe meglio, ove si ritenesse di affrontare il tema del parlamento del terzo millennio, lavorare tutti assieme, maggioranza e opposizione, per la democrazia, che non ha maggioranza e minoranze, ma è patrimonio dell’intero paese e dell’intera categoria di chi lo rappresenta?
In realtà, il vero quesito è un altro, e postula la maggiore onestà di tutta la comunità politica. Serve davvero una cosa chiamata Parlamento, oggi, o è una inutile e costosa (il dente batte sempre lì) sovrastruttura priva di funzione? E, in questi termini, la questione non tocca la prerogativa del presidente della Repubblica italiano, garante della Costituzione e del suo rispetto, fino a quando il testo rimane questo?
Montesquieu Il Sole 24 ore 25 agosto 2019
La riduzione del numero dei parlamentari tra crisi di governo e antipolitica
La riduzione del numero dei parlamentari è quasi legge. Il sì della Camera in seconda lettura è messo a rischio dalle dinamiche innescate dalla crisi gialloverde: se si andasse a votare tutto potrebbe saltare. D’altra parte l’approvazione della riforma allontanerebbe le urne e metterebbe fuori gioco i leghisti: anche per questo è probabile che in occasione delle prossime elezioni i deputati scenderanno da 630 a 400, mentre i senatori da 315 a 220. A esultare sono soprattutto i pentastellati, il cui capo politico ama promuovere la riforma con slogan da antipolitica militante: dicendo che tanti parlamentari servono solo a distribuire potere e poltrone, e che pertanto ridurli significa mettere fine a un’ingordigia politica andata avanti per decenni.
Non che da Di Maio ci si aspetti chissà quale fine disquisizione politica, ma francamente il livello del discorso è davvero basso. I parlamentari sono lì per rappresentare il popolo sovrano, e se invece di fare il loro mestiere pensano a spartire torte non è certo perché sono troppi. Chi è ingordo continua a esserlo anche se diminuisce il numero degli eletti: di certo non smette solo perché il suo carico di lavoro aumenta.
Ancora più disarmante l’altro argomento esibito per sostenere la diminuzione dei parlamentari: il risparmio di spesa che questa misura consentirà. Di Maio esulta perché si potranno risparmiare 500 milioni di Euro: non ogni anno, bensì per tutta la legislatura, ovvero per cinque anni. Rinunciamo cioè a un terzo dei parlamentari per risparmiare cento milioni all’anno: più o meno il costo di un F-35, i cacciabombardieri statunitensi di ultima generazione pieni di magagne, di cui l’Italia ha acquistato ventisei esemplari, gli ultimi otto ordinati dal Governo Gentiloni e appena confermati da quello gialloverde.
Alla luce di questo, suona ancora più ridicola la trionfale affermazione di Di Maio, secondo cui i risparmi legati al taglio dei parlamentari consentono l’acquisto di ben 2500 autobus. Occorre cioè rinunciare a un terzo dei parlamentari perché così ci possiamo comprare degli autobus: per l’esattezza uno ogni 24.000 abitanti.
Certo, rafforzare il trasporto pubblico è cosa buona e giusta, ma allora perché non tagliamo il numero dei parlamentari di due terzi, così ci possiamo comperare 5000 autobus? E inoltre saremo certi che i parlamentari superstiti, oberati di incombenze, non avranno neppure un attimo di tempo per spartirsi poltrone e potere? E perché non dimezzare il numero dei consiglieri regionali per finanziare la sanità o quello dei consiglieri comunali per poi destinare i risparmi alla scuola?
È evidente che il ragionamento non regge, anche se è tutto interno alla retorica cui questo esecutivo ci ha abituati. Se non abbassiamo il numero dei parlamentari dobbiamo rinunciare a 2500 autobus, così come se si investono risorse per i migranti allora non ci sono soldi per gli italiani, e se lavora uno straniero allora l’italiano resta disoccupato.
A ben vedere questa retorica si adatta perfettamente all’idea di politica cui ci hanno portato tanti anni di antipolitica. L’idea per cui essa non è l’arte della mediazione, la capacità di compiere e tenere insieme scelte articolate in vista del bene comune, bensì solo l’attitudine a risolvere problemi in modo efficiente: la politica è insomma mera amministrazione tecnocratica dell’esistente.
È questa idea di politica che si adatta alla perfezione alla concezione cesarista oggi in voga, per cui il leader sviluppa un rapporto diretto con il suo popolo e non ha dunque bisogno di mediazioni.
L’idea che nel corso degli anni ha portato a restringere in modo drammatico gli spazi di partecipazione democratica, e che porta ora ad accettare come un fatto irrilevante la circostanza che un deputato, oggi chiamato a rappresentare in media meno di 100mila cittadini, finirà per essere la voce di oltre 150mila cittadini. Nel solco di quanto si è già fatto con la riforma delle circoscrizioni a livello comunale e con l’abolizione non tanto delle provincie, quanto dell’elezione diretta dei rappresentati a quel livello territoriale.
Insomma, Di Maio si esprime da par suo e sponsorizza la riduzione degli spazi di democrazia con motivazioni risibili.
Ma prima di lui altri hanno utilizzato argomenti più dotti, che però hanno indicato la direzione che i pentastellati stanno diligentemente seguendo. Con un consenso ora reso ancora più ampio dalla necessità di schiodare i leghisti dal governo: proposito nobile, intendiamoci, ma occorrerebbe riflettere bene sulla leggerezza con cui si accordano concessioni per realizzarlo.
Alessandro Somma micromega 21/8/2019
Vedi: Se la democrazia diventa solitudine dei numeri esigui
Meno parlamentari, troppo governo
Democrazia diretta, il miraggio dei populisti
Verso una democrazia cesaristica