Radio Fascio ha impostato di recente il problema dei traditori. L’elenco dei miserabili che hanno partecipato al tradimento — così sconsolatamente confessa — è lungo, lunghissimo. Purtroppo vi sono — continua — traditori di grosso calibro, i quali costituiscono un gruppo non eccessivamente numeroso e accanto ad essi una fila interminabile di personaggi minori.
Coloro che non credono più, e si rifiutano in conseguenza di obbedire e di combattere, son dunque ormai tra gli italiani, per riconoscimento esplicito della pattuglia di punta del rinascente partito, schiera e lunghissima schiera. Fino a ieri, si può dire, non si sentiva altro che di fedeltà incondizionata e di adesioni definitive, sicché lo sparuto drappello dei dissenzienti sembrava davvero fosse nascosto abilmente nei famosi e certo angusti angolini.
Oggi si riconosce che le cose stavano ben diversamente e che i dissensi — chiamateli tradimenti, se volete — erano seri e vasti, anzi veramente totalitari. Per provenire le due valutazioni radicalmente diverse dalla stessa fonte, bisogna riconoscere che vi fu errore e, noi penseremmo, errore in mala fede nell’apprezzamento ottimistico che fu fatto allora dell’opinione del popolo italiano.
Vero è che non vi fu mai un’Italia fascista e filo tedesca, come gli avvenimenti del 25 luglio e successivi hanno dimostrato. Vero è che oggi non esiste un’Italia fascista e filo-tedesca, la quale si riduce ad una carta cattiva giocata nel pessimo gioco del dittatore nazista. Il fascismo non ha, come non ebbe mai, per sé né i vecchi né i giovani né i giovanissimi; ma se mai sparute minoranze disinteressate. Bisogna onestamente riconoscere che la crisi, per dirla con frase mussoliniana, non è nel sistema ma del sistema che il fascismo fu nella storia d’Italia.
Tutte le convulsioni che la sparuta schiera di questi tristi reintegratori del passato determini, per favorire la Germania, è veramente tradimento perpetrato ai danni dell’Italia. Ed è triste constatare la cieca pervicacia con la quale si dà opera a continuare una politica rovinosa ed a preparare la più inumana di tutte le guerre civili, quella cioè che contrappone l’uno all’altro i cittadini di una stessa Patria, i quali non divide, più forte della solidarietà nazionale, un diverso ideale, ma soltanto la prepotenza di un oppressore straniero cui tiene bordone un oppressore domestico.
Tutto ciò è molto triste certamente. E noi non possiamo pensare senza disperazione al sangue italiano che sarà forse versato ancora vanamente, contro la verità, contro la libertà, contro la vita. Ma vogliamo superare l’indignazione e il dolore che ci prendono, per dire ancora una parola serena ai fascisti d’Italia, se ancora ve ne sono. Noi non vogliamo porre ora in discussione la loro buona fede, ma domandiamo soltanto che facciano uno sforzo per capire che al disopra di una particolare intuizione della Patria c’è la Patria stessa nella sua verità, nella sua storia, nel suo avvenire, quale risulta dal pensiero e dall’amore di tutti i suoi figli; per capire che la Patria è patrimonio di tutti e che è delittuoso piegarla alla propria particolare visione.
Proprio perché la Patria è cosa di tutti, al fascismo fu dato di porsi tra le forze politiche del Paese, per far valere il suo programma accanto agli altri. La storia si fa di questi scontri e incontri, incessantemente.
La Patria è certo il nostro io, ma non il piccolo io angusto, che si chiude ad ogni considerazione, ad ogni rispetto, ad ogni amore degli altri, ma l’io che si fa, energico e pieghevole, memore di sé ed attento alla vita di tutti, incontro agli altri, e afferma e nega, cede e s’impunta, sicché nel vasto gioco delle azioni di tutti sorga, in libertà e come frutto di libertà, il volto storico della Patria.
La tirannia comincia là dove il piccolo io, rotto ogni vincolo di fraternità e di rispetto, dimentico di quella sublime umiltà che fa l’individuo uomo, la sua particolare visione eleva ad universale, senza il vaglio di una critica che consacri questo passaggio; il proprio particolare amore proponga orgogliosamente come l’amore di tutti. Allora la Patria è morta; quella sua grandezza augusta, che è nell’accogliere ogni voce, ogni palpito, ogni gioia, ogni sofferenza dei suoi figli, è spenta, terribile furto ai danni del proprio fratello è questo. Di più, impadronirsi della Patria di tutti, farne una piccola povera cosa di noi, è fatalmente condannarsi a perderla a nostra volta. Non si può negare ed affermare insieme.
Non si può dire Patria, senza dire «tutti». Dove gli altri siano stati dimenticati, dove si sia, fingendone l’adesione o comprimendone la reazione, fatto a meno di loro, la Patria è veramente finita.
Di questa fine, triste come l’oscurarsi dei valori che danno alla vita bellezza e dignità, potrebbero gli altri, i dimenticati e oppressi, chiedere conto ai dimentichi ed agli oppressori. Ma qui non si tratta di questo. Si tratta della Patria che ritorna, valore il quale, benché compresso, non può morire. Si tratta dell’Italia, la quale chiede di non essere ancora negata nella sua anima universale, di essere tutti, di accogliere in sé anche i figli che hanno sbagliato, anche quelli che hanno fatto intenzionalmente il male.
L’Italia ha troppo sofferto di questa divisione fatale, per la quale non bastava essere italiani per essere italiani, perché non sia pronta a dimenticare; ha troppo perduto di energie, di vivezza, di sapere, di moralità, di bontà, perché respinga ora qualsivoglia energia data con lealtà per l’opera di ricostruzione.
Ma non può essa permettere che coloro i quali proposero l’esclusivismo angusto tornino a chiamarsi italiani, senza aver riconosciuto il loro errore e la loro colpa, senza un’anima nuova, senza aver ritrovato il rispetto per tutti.
Tanto meno può permettere che il solco fatale che ha diviso e divide ancora la storia d’Italia sia tolto, senza che essa sia assicurata per l’avvenire da un ritorno in forza di ideologie e prassi politiche, le quali, abusando della libertà, operino contro la libertà.
Essa chiede che le voci di tutti gli italiani tornino a farsi sentire compostamente, che nessuna sia fatta tacere e nessuna pretenda di levarsi con prepotenza al disopra delle altre. Perché soltanto in questo equilibrio, in questo rispetto, in questa reale libertà si forma quella volontà solidale dei singoli riuniti in unità di popolo che fa la storia.
Contro i vecchi e nuovi tentativi di dittatura, quelli scaltri e quelli candidi, contro tutte le esagerazioni e le unilateralità, l’Italia chiede l’umiltà di tutti, la coscienza della propria particolarità, il bisogno e l’attesa della integrazione, un grande rispetto per le cose che sono più grandi di noi. E ciò l’Italia attende e domanda non con debole voce come per cosa che si possa dare o negare a proprio piacimento, ma con voce imperiosa, seppure amorevole.
È un dovere di patriottismo, è una esigenza squisitamente umana che ciascuno prenda con disciplina, la quale non esclude l’iniziativa e la responsabilità, il proprio posto di lavoro e dia opera in esso, dimenticando per un momento il triste passato, a costruire un avvenire più degno.
Aldo Moro (1916- 1978)
Vedi: Alla prova della libertà
Contro i nazionalisti torniamo patrioti
Aldo Moro e la Costituzione antifascista
Generosità e sapienza di uno studente: GIACOMO ULIVI