Stiamo vivendo una stagione di grandi proteste. Da Beirut a Parigi e da Santiago a Hong Kong, milioni di persone sono scese in piazza a manifestare. Si potrebbe quasi essere indotti a credere che tutti questi movimenti di protesta siano mossi dagli stessi motivi e che puntino agli stessi obiettivi.
In effetti, alcune somiglianze ci sono. In ognuno di questi casi, i dimostranti sono arrivati alla conclusione che chi è al potere sta rispondendo in modo inadeguato alle loro richieste e trascura sempre più le loro ambizioni. In tutte queste situazioni, inoltre, per mobilitare le masse i dimostranti hanno fatto uso delle grandi opportunità messe a disposizione dai social network, da Facebook a WhatsApp. Nonostante ciò, in fin dei conti le differenze meno evidenti tra questi movimenti di protesta contano molto più delle loro apparenti somiglianze.
Una parte di manifestanti, come gli studenti in Cile e i gilet gialli in Francia, vuole esprimere tutta l’insoddisfazione nei confronti di governi democratici. Ciò dimostra che, almeno sotto un punto di vista, il politologo Francis Fukuyama fu eccessivamente ottimista nella sua ben nota tesi sulla fine della Storia. Nel 1989 scrisse che la democrazia liberale sarebbe stata l’ultima forma di governo delle società umane avanzate, in buona parte perché in grado di gestire esclusivamente le loro “contraddizioni interne”. Le enormi folle in piazza a Parigi e a Santiago dimostrano che molte democrazie stentano a evitare che le loro contraddizioni interne facciano saltare in aria il sistema.
Un’altra parte di manifestanti, al contrario, si trova in una fase ben più avanzata della lotta tra democrazia e autocrazia. I cittadini che si sono fatti avanti numerosi per protestare da Caracas a Istanbul non sono per niente delusi dalle mancanze delle istituzioni democratiche. Al contrario: a mano a mano che nel quotidiano vedono le loro libertà e i loro diritti messi a rischio, sono sempre più determinati a riconquistarli.
Dunque la tanto criticata tesi di Fukuyama potrebbe contenere più saggezza di quanto credano in molti. Se la democrazia liberale si è rivelata molto più fragile di ciò che la maggior parte dei sociologhi ipotizzava pochi anni fa, non si intravede ancora un sistema alternativo in grado di risolvere meglio le sue contraddizioni interne.
Mentre i populisti, di destra come di sinistra, si sono dimostrati abili in modo sconcertante a mettere in pericolo le democrazie con l’illusoria promessa di restituire il potere al popolo, i loro istinti autoritari alla fine hanno fatto sì che ampie fasce della popolazione si rivoltassero contro di loro.
I valori di fondo della democrazia liberale – la libertà dell’individuo e il principio dell’autodeterminazione comune – potrebbero essere più universali di quanto le recenti battute d’arresto paiano suggerire.
Scrivo questo articolo da Praga, dove mi trovo per un evento organizzato per celebrare i 30 anni dalla Rivoluzione di velluto della Cecoslovacchia. Tra gli illustri partecipanti – molti dei quali ebbero un ruolo primario nella destituzione del regime comunista – l’umore è particolarmente cupo: se fino a pochi anni fa l’Europa centrale pareva marciare fiduciosa verso un futuro democratico, oggi i populisti minacciano la sopravvivenza della democrazia in molti Paesi.
In Ungheria, Viktor Orban è riuscito a instaurare quella che di fatto è una dittatura. In Polonia, un governo simile ha appena vinto un secondo mandato, anche se (o forse proprio perché) ha promesso di emularne il modello. A Praga, un presidente populista e un premier miliardario stanno sferrando, ciascuno a suo modo, un attacco alla legittimità della democrazia del Paese, conquistata a caro prezzo.
In ogni caso, i recenti eventi in Bolivia – verificatisi all’apice dei festeggiamenti globali in ricordo della caduta del Muro di Berlino – dovrebbero farci sperare di nuovo in un futuro migliore. Da quando è diventato presidente nel 2006, Evo Morales ha accentrato nelle sue mani sempre più poteri, ha stigmatizzato l’opposizione in termini sempre più aggressivi e ha collocato i suoi fedelissimi in posti chiave delle istituzioni principali del Paese, dall’emittente pubblica alla Corte suprema.
Al pari dei populisti, sia di sinistra che di destra, Morales ha dichiarato di esercitare il potere nel nome del popolo. Dopo settimane di proteste di massa in tutta la Bolivia, però, a costringerlo alle dimissioni è stata la sua perdita di legittimità tra la maggioranza dei suoi compatrioti.
Ciò che Morales e alcuni suoi sostenitori occidentali più sprovveduti hanno definito colpo di stato, in verità è stato qualcosa di diverso: la prova che i boliviani non sopportano un regime arbitrario. Quanto più a lungo hanno sofferto per l’oppressione, tanto più sono arrivati a dare valore alle istituzioni democratiche oggi minacciate dai populisti in tutto il mondo.
Ci sono buoni motivi per immaginare che, un giorno, i cittadini di Brasile, Ungheria e Repubblica Ceca potranno ribellarsi anche loro contro le false promesse dei populisti che li governano. E, per queste stesse ragioni, la caduta in disgrazia di Morales non dovrebbe spaventare soltanto i dittatori di sinistra in difficoltà come Nicolas Maduro in Venezuela, ma incutere terrore autentico tra i populisti di estrema destra, come Viktor Orban in Ungheria o Recep Tayyip Erdogan in Turchia, che sembrano avere ancora saldamente in mano il potere.
Yascha Mounk Repubblica 18/11/2019
Yascha Mounk è un politologo tedesco-americano, autore di “Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale” (Feltrinelli, 2018)
Scende in piazza la vita offesa
Da Hong Kong a Santiago del Cile, da Algeri a Beirut, da Londra a Barcellona, le rivolte si moltiplicano ovunque nel mondo, scuotono le nazioni, agitano i continenti. In America latina, dove i protagonisti, come in Ecuador, sono i popoli indigeni, cambiano già gli equilibri del potere. Lo stato d’emergenza, proclamato qui e là, non ferma lo spirito della protesta che si diffonde in modo imprevisto e contagioso soprattutto attraverso la rete delle città.
Il che non stupisce. La storia dei movimenti rivoluzionari si è sviluppata da sempre nel contesto urbano, in cui si concentra il capitale e si condensa il potere politico. Piazze, strade, vicoli, sono lo scenario consono, e quasi rituale, di cortei, dimostrazioni, barricate. E questo non cambia nel nuovo secolo, dove le metropoli globali, considerate ormai da molti l’avanguardia al di là dello Stato, sembrano contenere in sé un potenziale innovativo.
Ma che cosa hanno in comune manifestazioni così dissimili, alcune episodiche, altri ricorrenti, alcune timidamente accennate, altre apertamente sovversive? C’è un filo rosso che le lega, nonostante le modalità differenti? Si può scorgere, oltre gli obiettivi contingenti, un proposito comune?
È molto difficile rispondere. Si può dire che siamo entrati nell’età della rivolta. Questo è forse il filo rosso. Ma la rivolta non è – o non è ancora – rivoluzione. Eppure il suo significato non va sminuito e deve essere, anzi, considerato nell’orizzonte contemporaneo.
La rivolta scoppia d’un tratto, senza un perché. Sarebbe vano, e riduttivo, tentare di spiegarla. Davvero sono stati i trenta pesos in più per il biglietto della metropolitana a provocare la sollevazione dei cileni? E il caro carburante può dar conto del controverso movimento dei gilet gialli? Gli stessi motivi, addotti per chiarire il fenomeno, potrebbero provare il contrario: chi è sottomesso a condizioni di vita sempre più difficili non ha tempo, né energie, per ribellarsi.
La rivolta è senza una ragione, ma ha una sua logica, che è quella di infrangere il quadro costituito in cui vengono fatte valere le ragioni dell’ordine. La rivolta proclama anzitutto un grande «no»! Sennonché «l’uomo in rivolta», come suggerisce già Albert Camus nel suo splendido libro, mentre dice no, «dice anche sì, fin dal suo primo muoversi». Sarebbe un errore sottovalutare il desiderio nascosto nel semplice «no».
Tuttavia il limite della rivolta sta proprio nella mancanza di una strategia e nell’impossibilità di proiettarsi nel tempo. Questa è la differenza decisiva tra rivolta e rivoluzione, come sostiene Furio Jesi in un saggio che va ben oltre la storia del movimento spartachista.
L’insurrezione spontanea, la «pura rivolta», sospende il tempo. Non prospetta il domani, non lo prepara, come farebbe la rivoluzione rovesciando le contraddizioni interne al capitalismo. Piuttosto, in modo esasperato, e talvolta violento, apre uno squarcio sul dopodomani. Lo indica, lo evoca, lo rappresenta. Come dovrebbe essere, come lo desidera. Senza curarsi della sconfitta dell’oggi.
Si intuisce allora perché la rivoluzione abbia sempre cercato di inserire la rivolta nel suo disegno strategico, di coordinarla e dirigerla verso il suo obiettivo finale – di rado riuscendoci. Imprevista e imprevedibile, la rivolta non nasce da una volontà congiunta d’azione, ma è un evento che, oltre a interrompere il tempo, e scompaginare la storia, coinvolge, quasi loro malgrado, i partecipanti, riunendoli nello spazio simbolico di una comunità.
«Ce n’est qu’un début!», si gridava nel ’68. Ed è questo un po’ il senso della rivolta, che segna un inizio, un cominciamento, una novità radicale. Non finisce di ricominciare chiedendo l’impossibile di dopodomani. Spetta ad altri continuare a combattere per giungere alla meta.
Nel dibattito politico non pochi sono i filosofi – da Jacques Rancière a Judith Butler – che si interrogano sull’eclatante moltiplicarsi delle rivolte negli ultimi anni. In una visione negativa, e non del tutto condivisibile, Slavoj Žižek scorge nella rivolta attuale una forma di protesta insensata, un «passaggio all’atto», un tentativo che, affine all’attentato terroristico, nasce dall’impotenza ed esprime frustrazione. Non rivendica nulla, non ha la visione utopistica che permeava la rivolta del ’68; è una esplosione populistica che dovrebbe allarmare, perché segnala il caos in cui viviamo e la difficoltà di orientarsi.
Certo la rivolta è una risposta a quel paradosso del neoliberismo che, mentre si autocelebra come società della libera scelta, proclama il “no alternative!“. L’indice è puntato contro una politica ridotta a consenso e calcolo, a compromesso e negoziazione, mentre aumenta l’abisso dell’ineguaglianza. «No es depresión, es capitalismo!» è uno degli slogan che hanno animato l’insurrezione cilena.
La questione, però, non è solo economica. In piazza si raccoglie la vita offesa che non sopporta più di essere calpestata, che non tollera più la mera sopravvivenza. E allora rivolta! – perché nessuno crede più al sogno del progresso capitalistico, né tanto meno, a quelle leggi ferree dell’emancipazione che nel marxismo promettevano il benessere per gli sfruttati. Rivolta! – per scalfire la monotonia del proprio destino. Perché nessuno vorrebbe andare verso il domani, che sembra più catastrofico dell’oggi. Ma nessuno sa, però, dove dirigersi, dato che la mappa del globo, spaziale e temporale, è ormai quasi indecifrabile.
Per le strade e nelle piazze si assembla una massa che la governance politica, perfino nel suo volto poliziesco, non è riuscita a governare. È la massa degli ingovernabili che irrompe sulla scena, che si prende lo spazio pubblico, che entra nella sfera dell’apparizione. Questi non-rappresentati dalla politica ufficiale ridisegnano, attraverso l’occupazione, un ambito politico. Gli espropriati sono oggi sempre più invisibili. Più che la povertà, si vorrebbe sopprimere il povero. Per non parlare di tutte quelle vite di scarto, o-scene per un potere che le relega nelle periferie o le bandisce nei campi.
Gli operai che bloccano l’autostrada non protestano solo contro la fabbrica delocalizzata, ma si sottraggono anche alla propria clandestinizzazione e rimettono in discussione i confini del politico, confini sorvegliati non per caso in modo poliziesco.
Dagli scioperi alle occupazioni, dai raduni pubblici ai boicottaggi, il filo rosso che lega le innumerevoli rivolte del mondo globalizzato sta nella delegittimazione del regime politico di cui non vengono più accettati i confini. La rivolta dà voce a un diritto all’apparizione che viene da fuori, che è extra-politico. Di qui l’importanza dei nuovi media, non solo per l’organizzazione estemporanea, ma anche per trasmettere quei nuovi rapporti sulla piazza.
Sarà forse quella attuale una rivolta malinconica. E tuttavia non si può fare a meno di vedere che segna già un passaggio anarchico dove non si destituisce solo il potere, ma si apre un nuovo spazio politico nella democrazia.
Donatella di Cesare, filosofa L’Espresso 10/11/2019
Vedi: Pensiero Urgente n.174)
La critica radicale del presente: l'eredità di Marx
Non cadiamo nel baratro populista