Secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori, nel 2018 quattro italiani su dieci non hanno letto neanche un libro; e di quella parte della popolazione che legge, invece, il 41% non arriva comunque a tre libri letti in un anno. Il dato è drammatico ed è dovuto a un insieme di concause di diversa natura. È evidente che, in una situazione del genere, per molti la lettura resti un’esperienza collegata per lo più al periodo scolastico.
È tra i banchi che tanti si approcciano, in maniera più o meno entusiasta, ai primi libri, che per molti però – a quanto pare – restano anche gli unici, o quasi. A loro volta, gli insegnanti che guidano i ragazzi attraverso le prime letture, sono incalzati e ingabbiati dai programmi scolastici. E spesso sono costretti ad accelerare il passo alla fine dell’anno per riuscire a coprire tutti gli argomenti e a trattare in modo sbrigativo autori che meriterebbero uno studio approfondito per essere apprezzati.
Questa sorte, purtroppo, tocca spesso alla letteratura del Novecento, “colpevole” di rientrare nel programma dell’ultimo anno ed essere quindi più soggetta a frette didattiche, anche in vista della maturità. In questa categoria troviamo tutti quei testi che hanno raccontato la Resistenza italiana e che, per questo, oltre a un valore letterario dovrebbero averne uno civile e, con le dovute attenzioni, storico.
Trascurarla, quindi, oltre che un crimine culturale, rappresenta anche una macchia nella formazione civica dei giovani cittadini. La letteratura resistenziale potrebbe essere la nostra epica moderna; noi, però, continuiamo in gran parte a ignorarla, o comunque a non darle sempre l’importanza che meriterebbe.
Per dare una definizione del genere è innanzitutto necessario capire cosa intendiamo quando parliamo di epica. Il termine deriva da epos, la parola greca con la quale si indicava qualsiasi opera letteraria composta in esametri. Successivamente si è iniziato a usare questa definizione per riferirsi a narrazioni vicine per contenuti e toni a quelle che usavano quel particolare metro.
Perciò, se parliamo di epica, pensiamo alle vicende di eroi dell’antichità, a storie che rimandano a un passato semi-mitico alla base di tradizioni e culti di un popolo. Giusto, sicuramente, ma incompleto. La definizione in questo caso più calzante è quella che diede, lo scorso secolo, il filologo inglese Eric Havelock (1903- 1988) in Cultura orale e civiltà della scrittura.
Egli, pensando soprattutto ai poemi omerici, definì l’epica come enciclopedia tribale, con un interesse che quindi riguarda quasi più l’antropologia che la critica letteraria. Havelock riconosceva in quelle storie l’insieme dei riti e dei valori di una società che in quelle narrazioni vedeva proiettata se stessa. L’epica, così, serviva come sistema di riferimento, come contenitore del patrimonio culturale collettivo di un popolo che intorno a essa si sentiva unito.
Ovviamente, noi italiani, in quanto popolo moderno, difficilmente ci potremmo ritrovare intorno ai valori dell’epica arcaica, fatta di eroi e scontri bellici corpo a corpo, di sacrifici alle divinità e mostri. Abbiamo perciò bisogno di un’epica moderna. D’altra parte, se secondo la Costituzione il nostro è un Paese democratico e antifascista, e se è proprio dalla Resistenza che nasce l’Italia così com’è ora e nella quale noi viviamo, allora sarebbe giusto considerare la letteratura che parla di quel periodo come la nostra epica, la nostra enciclopedia tribale, l’insieme dei nostri valori.
In questo modo riusciremmo a dare la giusta importanza a capolavori come Il sentiero dei nidi di Ragno di Italo Calvino (1923- 1985), Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1922- 1963) e Uomini e no di Elio Vittorini (1908- 1966), testi nati non per spirito di cronaca o amore delle belle lettere, ma come autentica espressione delle pulsioni civili e politiche di quel periodo.
A questo proposito sono esemplificative le parole usate dallo stesso Calvino nella prefazione all’edizione del 1964 del suo romanzo: “Al tempo in cui l’ho scritto, creare una «letteratura della Resistenza» era ancora un problema aperto, scrivere «il romanzo della Resistenza» si poneva come un imperativo”.
Erano gli autori stessi, quindi, a sentire – per usare ancora parole di Calvino dalla stessa prefazione – una responsabilità sociale data dalla necessità di raccontare ciò che ha portato alla nascita dell’Italia libera e democratica dei nostri giorni.
Nella fattispecie, il romanzo di Calvino risulta forse la massima espressione di questo slancio civico della nostra letteratura perché, presentando tutta la vicenda attraverso gli occhi di un bambino, si scherma automaticamente anche da eventuali accuse di mistificazione ideologica, assumendo quasi un valore quasi di opera “storica”, pur rifiutando ogni pretesa di questo tipo.
Viene da chiedersi, quindi, cosa voglia dire considerare la letteratura resistenziale come la nostra epica e, in questo senso, interviene a darci una mano Jorge Luis Borges. Durante le sue lezioni americane, infatti, l’intellettuale argentino definì l’eroe epico come l’uomo che è modello per gli altri uomini, che – come abbiamo detto prima – incarna i valori intorno ai quali si riconosce la sua società.
L’Italia in cui viviamo dovrebbe ruotare ideologicamente, almeno sulla carta, intorno agli ideali della democrazia e della libertà, riottenute con la lotta di liberazione dopo un ventennio di regime che le aveva viste represse e negate.
Ma allora, se queste sono le premesse morali, dove altro dovremmo cercare i nostri eroi, cioè uomini che siano modelli civili, se non nella Resistenza e nella letteratura che ne parla?
Siccome, come è ovvio che sia, nessun cittadino potrebbe rispecchiarsi in Achille, Ettore o Menelao, il riferimento eroico di ognuno dovrebbe essere, ad esempio, il partigiano Johnny e il suo estremo slancio civico narrato da Fenoglio.
Si parla, ovviamente, di testi di finzione, non storici, ma anche per i Greci Iliade e Odissea erano terreno fertile per l’innestarsi di miti, dei quali si conosceva la natura fittizia, ma se ne comprendeva e viveva il valore più ampio.
Ma perché, allora, non ci rendiamo conto del valore civile, oltre che letterario, della letteratura resistenziale? Probabilmente alla base del problema c’è il fatto che, in Italia, la lotta al fascismo è ancora una questione aperta e – per assurdo che sia – in parte divisiva. Dovrebbe essere, invece, la base comune intorno alla quale ritrovarci tutti.
Dovremmo considerare i valori democratici come una certezza, un pilastro della nostra società, non come qualcosa che possa essere oggetto di discussione e che, purtroppo, è ancora necessario difendere e ribadire.
Nell’Italia del 2019 nessun cittadino dovrebbe pensare di affibbiare una connotazione negativa al termine “antifascista”, come fosse un insulto, usandolo – spesso sui social – quasi come uno sfottò da stadio. Nondimeno è assurdo pensare di relegare l’antifascismo solo a determinate frange politiche, ma dovrebbe essere condiviso da tutti i membri, attivi e non, della nostra società, o almeno dei nostri rappresentanti. Dovrebbe essere la premessa essenziale per poter entrare in qualsiasi dialettica della politica, invece, come ben sappiamo, la realtà è diversa, ed è proprio la politica che spesso lascia spazio a queste storture democratiche e logiche anche in sedi istituzionali.
Ma, allora, cosa si può fare per mettere la letteratura della Resistenza al posto che merita e per far sì che la sentiamo davvero come la nostra epica, l’insieme dei nostri valori? Come detto, il problema non è soltanto letterario o culturale, ma civile, e su quello la letteratura ha un potere limitato, soprattutto tenendo conto dei dati, dei quali abbiamo parlato all’inizio, legati alle letture degli italiani.
Si potrebbe, però, iniziare a rivedere i programmi scolastici, e con essi i libri di testo, per far sì che quei romanzi che hanno raccontato la nascita della nostra democrazia non si perdano nel mare magnum della letteratura del Novecento. Per fare ciò bisogna dare il giusto peso ad autori, epoche storiche e correnti letterarie, tenendo conto che tra i fini della scuola vi è la formazione dei cittadini, non esclusivamente la loro erudizione (cose che comunque dovrebbero andare di pari passo).
E la formazione vera e propria passa attraverso l’acquisizione di valori civili. Leggere Il partigiano Johnny, ad esempio, sarebbe anche un modo per strappare il patriottismo – che, si badi, non è nazionalismo - alle destre e alla loro retorica.
Con l’evidente crisi di valori democratici che ci circonda, recuperarli e rafforzarli diventa ancor più necessario e, per fare ciò, la letteratura può fornire un valido aiuto. Abbiamo bisogno di riscoprire i nostri valori civili e se a insegnarceli è un bambino, il giovane Pin, protagonista de Il sentiero dei nidi di ragno, meglio ancora.
Finalmente, così, avremmo la nostra epica, il nostro patrimonio collettivo al quale sentirci legati senza esitazioni.
Corrado Tesauro in The Vision 29/10/2019
Vedi: LETTERE DEI CONDANNATI A MORTE DELLA RESISTENZA ITALIANA. 8 settembre 1943- 25 aprile 1945
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