Dal senso del dramma di Craxi alla freddezza dei 5Stelle

A Ilario Lombardo della Stampa, che gli chiede se le molte sconfitte lo abbiano indotto allo sconforto, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio replica così: «Lo sconforto non mi è mai appartenuto».

La risposta sorprende per tre ragioni: perché è impossibile che un normale essere umano non venga mai preso dallo scoramento; perché tutte le cronache parlano di un leader dei 5Stelle “avvilito” e “abbattuto”; perché quella frase («non mi è mai appartenuto») è un’espressione del più convenzionale politichese, appena attenuata da una cadenza sub-letteraria.

Ma questi sono dettagli: ciò che più conta è quella irriducibile tendenza di Di Maio, così come della quasi totalità della classe politica, a negare la debolezza. E la pervicace tentazione di proporre sempre un’immagine compatta di sé, priva di incrinature e di fragilità. C’è in questo la persistenza di una concezione marziale della politica, sempre associata a una pratica di combattimento.

Ammettere la perdita e riconoscere la crisi significa, all’interno di quell’idea bellica della politica, dichiararsi sconfitto. E questo un leader non può permetterselo.

Tantomeno un leader che, in brevissimo tempo, è passato da una condizione di semi-anonimato a una di massima esposizione mediatica e istituzionale, nonostante una desolante pochezza culturale e politica.

A qualcuno può apparire come una forzatura ma, a me, quella frasetta, apparentemente innocua, sembra proprio il frutto di tanta povertà. E di una politica senza spessore. Senza storia e senza memoria. Senza dolore e, dunque, priva persino della possibilità di quello “sconforto”, che è una tonalità del senso della tragedia. E quest’ultimo accompagna le sconfitte e insidia le vittorie nella politica come in tutte le opere umane.

Ecco, la politica attuale sembra aver perso completamente questa dimensione densa e gravosa, per ridursi o a un gioco di società, dove dominano i talenti della più scintillante futilità; o le grossolanità del linguaggio plebeo amato dall’élite; o ancora i coreuti più conformisti che, per sentirsi fuori dal coro, dicono pane al pane, vino al vino e frocio al frocio.

All’opposto, la definizione della politica come “sangue e merda” (Rino Formica) raccontava con efficacia un’idea dell’azione pubblica e della militanza politica come impresa umana segnata dal senso del dramma.

Ovvero dalla consapevolezza dello scarto tra la misura del progetto politico e la fragilità dei mezzi destinati a realizzarlo, tra l’ambizione del programma e la forza preponderante degli avversari, tra la visione del futuro e la miseria del presente.

Questa concezione era comune alle grandi correnti del pensiero politico italiano. E connotava il discorso pubblico, la personalità e persino la fisionomia, l’oralità e la gestualità dei leader del secondo Dopoguerra. Ciò in un’epoca che vedeva la sovranità dell’Italia fortemente limitata dall’appartenenza a un blocco politico-militare. Da qui, molti tragici errori da parte di quei leader, ma anche una grande lezione che ha permesso a milioni di italiani di scoprire – pur nell’asprezza di battaglie talvolta durissime – la dignità e la nobiltà della politica.

La vicenda giudiziaria di Tangentopoli (ma prima il crollo del muro di Berlino, con tutto ciò che ha comportato) spezzò quel processo storico e compromise irreparabilmente quell’idea di politica. Un grande regista come Gianni Amelio ha avvertito la tormentata profondità di tutto questo e ha trovato lo sguardo della malinconia per descrivere gli ultimi sei mesi della vita di Bettino Craxi. Chi, come me, si è sempre trovato dalla parte opposta a quella del leader socialista, non può non restare colpito da quella sorta di epopea dello sconforto raccontata da Hammamet.

Poi, e provvidenzialmente, quel tempo mutò, ma non ne è derivata un’idea più laica e razionale della politica, e il disincanto e la crisi delle ideologie non hanno prodotto un’azione pubblica capace di perseguire obiettivi condivisi e di distribuire le risorse scarse in base a criteri di equità.

Ne è discesa, al contrario, esercitata attraverso la pressione dei gruppi di interesse sulle istituzioni. E anche le novità in apparenza più dirompenti, come è stato in origine il Movimento 5 Stelle, hanno subito quella mutazione.

Il Movimento di Grillo è diventato un partito burocratico-autoritario, alimentando una classe politica gravata da doppia morale e doppi incarichi. E tutto ciò è avvenuto così rapidamente che non si è trovato nemmeno il tempo necessario per provare un po’ di “sconforto”. Forse Di Maio dovrebbe andare più spesso al cinema.

Luigi Manconi        Repubblica   14/ 1/ 2020

 

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