Prima premessa. Non siamo complottisti. Seconda premessa, tanto per evitare fraintendimenti. Siamo consapevoli dell’emergenza sanitaria in corso, convinti di dovere modificare le nostre abitudini. In tal senso, abbiamo deciso di sospendere eventi e concerti, di fare dunque la nostra parte per evitare di aggravare la situazione di un sistema sanitario già pesantemente provato. Inoltre stiamo mettendo in campo (in sicurezza) un’azione di aiuto della fascia più esposta in città, ovvero degli anziani. Tutto questo è ok, lo sappiamo e lo facciamo… Però.

"Storia della colonna infame", saggio storico di Alessandro Manzoni, 1843

Però siamo un collettivo, una comunità fatta di uomini e donne, giovani e meno giovani, operai e ricercatrici, studentesse e partite IVA, eterosessuali e gay, cisgender e queer. Siamo diversi, ma tutti abituati a vivere assieme, non solo a telefonarci molto, a chattare molto, a scriverci molto, a laikarci molto. La nostra vita è scandita da assemblee, riunioni, cortei, azioni, serate, viaggi, trasferte, occupazioni, colazioni, pranzi e cene. Sì, troviamo anche il tempo di studiare (spesso assieme) e di lavorare (a volte assieme, per rendere il lavoro meno penoso). Ci amiamo, ci odiamo, ci troviamo d’accordo, litighiamo, assieme facciamo ottime cose, assieme facciamo cazzate.

Capirete dunque il nostro smarrimento di fronte ad un dispositivo in cui il bene comune viene a coincidere con la stretta su molte forme della vita in comune, in particolare su quelle che si basano sull’autonoma cooperazione sociale. Pensiamo qui alla brusca interruzione di ogni comune corporeo che non sia quello in atto in alcuni luoghi di lavoro e consumo o che non sia mediato dalle tecnologie digitali. Voi direte, quanto cazzo la fate lunga! Si tratta di un mese, non fate gli idioti. Bene, l’abbiamo capito, e vi rimandiamo alla seconda premessa.

Capirete però la nostra necessità di non fermarci all’evidenza sanitaria, messi di fronte ad un’epidemia in cui lo stato d’eccezione funziona non tanto come dispositivo di imposizione (non ancora perlomeno), ma soprattutto di auto-imposizione di una vita in isolamento e come produzione di un sentimento diffuso di colpevolizzazione e auto-colpevolizzazione del sociale.

Un sentimento dedito, in primis, ad additare gli untori, troppo spesso dimenticando le cause sistemiche che pesano incredibilmente sulla crisi in atto. Certo i giovani hanno il dovere della consapevolezza del loro privilegio rispetto ai vecchi, nulla da dire, ma il privilegio è discorso complesso. Chiudersi in casa, ad esempio, implica il privilegio di avere una casa.

Quella che non hanno i migranti al confine tra Grecia e Turchia, uccisi e respinti da eserciti e squadracce fasciste (che #nonsonorestateacasa), quella che non hanno i migranti nei nostri CPR (di cui nulla si sa), quella che non hanno i nostri poveri nostrani, quella che non hanno i carcerati, giustamente in rivolta, ma condannati dal sentimento digitale che, dall’alto dei nostri divani (se vogliamo proprio metterla sui luoghi comuni), se ne fotte di quella debolezza e di quella subalternità.

Ci pare sproporzionata la rabbia diretta verso chi non resta a casa rispetto a quella indirizzata nei confronti di chi ha smantellato per decenni il nostro sistema sanitario pubblico. Ci pare significativa la difficoltà nel proporre qualsiasi tentativo di contestualizzazione. Perché, ad esempio, non ci agitiamo così anche per le decine di migliaia di morti causati ogni anno dall’inquinamento dell’aria? Non sono meno morti di altri. Non sono morti virtuali.

Non è dunque l’incoscienza, o peggio il privilegio della giovinezza, che ci spinge ad una riflessione ulteriore, alla necessità cioè di non arrestarsi al primo e più semplice livello di responsabilità, quello di isolarsi. Sarà pure una questione passeggera e noi ci adeguiamo (non siamo mesmerizzati dall’ideologia), ma questo tempo del coronavirus è, dal nostro punto di vista, uno spaventoso esercizio di prefigurazione in negativo, una finestra su un possibile scarto verso una società ancora più atomizzata, individualizzata, smaterializzata, disciplinata ed autodisciplinante.

Flagellanti (disegno del XIV secolo)

Ciò non significa che i poteri costituiti abbiano voluto il Coronavirus o che non ne usciranno provati anche loro, né significa sentirsi deresponsabilizzati di fronte alla malattia; però, per chiunque abbia in orrore l’orizzonte di una società digitalizzata e autodisciplinata, socialmente atomizzata ed iperproduttiva, delatoria ed impoverita, il momento di agire e pensare è adesso. I nostri anticorpi sociali vanno cercati in fretta, per evitare che troppi elementi di questo quadro distopico si sedimentino nella realtà, una volta passata l’emergenza.

Così, la frequentazione dei social network, in questi giorni desta non poca preoccupazione. Il disappunto social investe qualsiasi forma collettiva di risposta alla crisi del Coronavirus. Tutto ciò che non si può ricondurre al #iorestoacasa è degno dello sgomento più ovvio, dei giudizi più sprezzanti, degli insulti e dei più palesi auguri di morte dolorosa. Si critica essenzialmente l’irresponsabilità e si tira in ballo l’arroganza del privilegio della giovinezza che non terrebbe conto dei più deboli e dei più anziani.

Non è facile per noi leggere post e commenti, è come rimanere impregnati nella melassa digitale del nostro tempo, un’amalgama social che tiene insieme sovranisti, sessisti, fustigatori (destri e sinistri) di radical-chic e, non nascondiamocelo, pure qualche attivista: militanti o ex-militanti che divenuti (evidentemente) orfani delle loro comunità politiche, sono rimasti soli con Facebook.

Il Coronavirus ha fatto il miracolo, nell’infosfera digitale si trovano finalmente assieme l’educata progressista e il sovranista, l’alfiere della scienza ed il maschilista, il giovane “responsabile” e chi applica discutibili criteri meritocratici alla cura.

Il Coronavirus, visto da un punto di vista sociale, produce due frutti avvelenati, apparentemente contrapposti. Il primo è la tanto paventata psicosi, il secondo (più preoccupante dal punto di vista antropologico) è un effetto generalizzato di autodisciplina nel quadro di una società fortemente atomizzata e individualizzata.

C’è un confine sottile, oggi, tra l’invito a prendersi cura responsabilmente della salute collettiva, da una parte, e la riduzione volontaria di ognuno di noi a difensore individualizzato (anche inconsapevole) della ragion di Stato e dell’unità nazionale. Anzi, assistiamo alla sconsolante sovrapposizione di queste due tensioni, e i social network sono, in questo senso, un osservatorio privilegiato.

Verrebbe da dire che non c’è veramente opposizione tra i paradigmi del biopotere e dello stato d’eccezione. Da un punto di vista politico non possiamo non renderci conto di come il richiamo, completamente biopolitico, ad assumersi la responsabilità collettiva di rallentare il contagio attraverso l’isolamento, funzioni in realtà come biopotere autodisciplinante, in fantastica sintonia con lo stato d’eccezione che, all’Italiana, ci è stato farsescamente imposto qualche giorno fa. Eppure si tratta di una farsa che ci renderà un po’ meno liberi di prima.

Se, ai tempi della Colonna Infame, la peste si propagava nelle processioni religiose organizzate a scopo di salvezza, oggi, al contrario, sappiamo che gli assembramenti sono pericolosi. Una cosa però non è cambiata da allora, la brutta abitudine della moltitudine di additare gli untori. Nel ’600 se ne occupava il popolo delle processioni, con il sostegno dei governanti, oggi se ne incarica la  manifestazione del popolo all’interno dell’arena digitale.

"Dalli all'untore!", dal romanzo " I promessi Sposi" di Alessandro Manzoni, 1827

Il “popolo della rete” è un’espressione meno vacua di quanto si creda. E allora giù! “Dalli all’untore!”. Dalli a chi si riunisce, discute, a chi insieme ad altri riesce a non farsi paralizzare dal terrore.

In questa narrazione il probabile collasso della sanità pubblica in Italia è totalmente addebitato alla figura del disertore. Se, il linguaggio istituzionale è ormai declinato in chiave bellica, il traditore non è chi ha sottratto le armi al popolo, chi ha inquinato l’aria per decenni, chi ha depotenziato la sanità pubblica, ma chi oggi mette in luce il dato politico dietro al dispositivo sanitario e chi cerca di inventare altri modi di vita in comune dentro la crisi.

Certa imprudenza delle nostre forme di vita (che pure oggi accettiamo di modificare) e certa imprudenza del nostro pensiero non sono il frutto di scanzonata cazzonaggine, al contrario sono costituenti della nostra tensione politica verso la difesa di una dimensione comune, di un incontro che riaffermi un dispositivo di gioia.

È un vecchio arnese spinoziano quello della gioia, lo prendiamo a prestito per definire l’intensificazione della capacità di agire e di pensare. Un’intensificazione che avviene solo nell’incontro, nell’affezione con corpi, tra corpi. Sì, perché al contrario della cattiva coscienza della rete (che è un agglomerato digitale con effetti antropologici decisivi), chiusa nella sua modalità giudicante e inerziale (eco della parola d’ordine, dello stato d’eccezione, della ragion di stato), noi, pensando assieme, trovano la forza di agire. Quella che l’epidemia di isolamento in corso ci ha sottratto.

Come si fa ad accettare la riduzione della complessità del discorso unicamente al discorso medico? Tale riduzione indica, in questo momento, l’abdicazione di una posizione libertaria e comune. Opporsi a questa riduzione non è una scelta fatta a cuor leggero (né signfica mancare di riconoscenza nel confronti del grande lavoro di tutto il personale medico-sanitario), ma è una scelta, dal nostro punto di vista, necessaria.

Del resto, dal clima che si respira in rete, capiamo che la responsabilità di superare “la parola d’ordine” di questo intreccio tra scienza e potere costituito, è qualcosa di cui gli individui digitali non possono farsi carico: troppo informati, troppo impauriti, troppo trasparenti, troppo colpevolizzati, troppo presi nell’autocompiacente trappola dell’espressione continua.

Nel 2003, nel tempo della “giustizia infinita” di Bush, Jacques Rancière lamentava il fatto di essere entrati nel tempo di una “svolta etica della politica“. Con questa formula intendeva la fine della politica in quanto ambito in cui si contrapponevano diverse morali, diversi diritti e, udite udite, perfino diverse violenze.

La fine di tale epoca lasciava spazio ad una fase di indistinzione, in cui l’ordine globale neoliberista spadroneggiava opponendo astrattamente bene e male, giustizia e terrore. Al dissenso, sale della politica, seguiva una società monolitica basata sul consenso.

Oggi le circostanze sono molto diverse, ma simili in alcuni effetti, la comunità di fronte alla malattia non è più fatta di differenze e contrasti, ma di una sommatoria di individui in cui le asimmetrie si azzerano, scomparendo sotto il peso del terrore pandemico. Certo, la vulgata vuole che nostri anziani siano difesi dall’indisciplina dei nostri giovani, ma i “non nostri”, i migranti, i carcerati, i poveri soffrono l’esclusione più completa, l’invisibilizzazione più totale.

Dai tempi dello scritto di Rancière lo stato d’eccezione non ha cessato di mostrare la sua portata globale, ma rimaniamo d’accordo con il filosofo francese nell’idea che l’orizzonte di Agamben, quello di una salvezza messianica al fondo di una catastrofe infinita, sia insufficiente. Noi ci ostiniamo a cercare una pratica possibile della politica radicale e del dissenso, anche ora, anche qui, dal centro di una delle zone rosse.

La nostra imprudenza non è il frutto di irresponsabilità, semmai l’opposto. Ci siamo assunti la responsabilità di rompere quel discorso, che, rassicurato dall’emergenza, finisce non solo per proteggere la salute collettiva, ma anche per riaffermare il consenso e l’unità del comando e del sapere esperto. Tutti elementi che vediamo dispiegarsi in questi giorni con grande chiarezza.

Allora, diciamo noi, rivolgendoci a chi ancora non è paralizzato dalla paura: cosa dovremmo fare? Prendercela con chi si organizza,  con  chi esce? O magari organizzarci per protestare a Venezia, Milano o Roma (pure in mascherina e a distanza di sicurezza) per chiedere che la si faccia finita con il decennale disinvestimento nella sanità pubblica?

La regione Veneto, a guida leghista, da molti anni ha contribuito ad aggravare la situazione. Se, secondo le normative ministeriali, si ha diritto a 3,7 posti letto ogni 1000 abitanti, l’ineffabile Zaia, per adeguarsi a questa direttiva, ha tagliato, in proporzione, molti più posti letto al pubblico che al privato. E il privato che fa? Se teoricamente le sue risorse sono a disposizione della sanità pubblica in caso di emergenza, stiamo utilizzando a pieno queste risorse? Se ne sa troppo poco.

Prendiamo il decreto ministeriale n. 70 del 2015, esso indica, tra le altre cose, che il numero di posti letto ospedalieri sia stabilito in rapporto al numero di abitanti. Questo criterio è totalmente insufficiente, posti e servizi vanno definiti anche secondo altre discriminanti come l’età anagrafica (Venezia, ad esempio, è una città “anziana”) e le patologie più diffuse. In più, se è vero che la quarantena ce la siamo inventati in Laguna, oggi in città non c’è un centro epidemiologico.

Perché, ancora a Venezia, il sindaco latita e non ha messo in piedi alcuna task force per fronteggiare l’emergenza? Perché non ci sono gli uomini per assistere i famosi “più deboli” che qui sono soprattutto le persone anziane? Certo, noi ci stiamo organizzando per aiutare le persone in difficoltà (per lo meno quelle del nostro sestiere) con la spesa di alimentari o medicine, avendo cura di entrare in contatto con loro sempre in sicurezza, cioè indossando mascherina e guanti.

Rimane però, sotto questo aspetto, un vergognoso vuoto istituzionale. Non dovremmo pretendere, oltre quanto già fatto dal governo, molte più stabilizzazioni nel settore del sanità pubblica e nuovi assunzioni immediate?

Siamo quindi socialmente capaci, oltre al richiamo all’isolamento, di imporre un cambio di passo necessario nella gestione della sanità, in vista della prossima epidemia?

Non dovremmo, poi, porci il problema di aprire o riaprire uno spazio politico sul terreno delle biotecnologie, un mercato globale in cui è normale sperimentare su virus e altri vettori genetici, in nome della mercificazione della vita?

Non dovremmo, infine, essere in grado, come propone in questi giorni l’ADL (un sindacato di base), di ottenere un reddito di quarantena per tutte le lavoratrici e i lavoratori precari di qualsiasi settore, colpiti dal blocco delle attività. E se proprio tutto si blocca, gli operai e le operaie devono farne le spese un’altra volta? Tutto per fare contenta Confindustria?

Noi la risposta a queste domande ce la siamo data. Il problema vero, ci pare, è che troppi non se le siano nemmeno poste.

di Laboratorio Occupato Morion      in  globalproject.info   12/3/2020

 

 

“Il sospetto può distruggere. La ricerca insensata di un capro espiatorio può travolgere come una catastrofe adulti, bambini e anche bambini non ancora nati. L’aspetto terribile di tutto ciò è che queste cose non accadono solo ai confini della realtà.”

Dalla serie tv “Ai confini della realtà” (1958- 1964)


 

 

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