Un giurista di cui un tempo avevo qualche stima (Gustavo Zagrebelsky, n.d.r.), in un articolo appena pubblicato su un giornale allineato, cerca di giustificare con argomenti che vorrebbero essere giuridici lo stato di eccezione per l’ennesima volta dichiarato dal governo.
Riprendendo senza confessarlo la distinzione schmittiana (Carl Schmitt, giurista e filosofo, 1888-1985, n.d.r.) fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente, e dittatura sovrana che mira invece a istaurare un nuovo ordine, il giurista distingue fra emergenza e eccezione (o, come sarebbe più preciso, fra stato di emergenza e stato di eccezione).
L’argomentazione in realtà non ha alcuna base nel diritto, dal momento che nessuna costituzione può prevedere il suo legittimo sovvertimento. Per questo a ragione nel suo scritto sulla Teologia politica, che contiene la famosa definizione del sovrano come colui «che decide sullo stato di eccezione», Schmitt parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», che nella dottrina tedesca e anche fuori di questa si è imposto come termine tecnico per definire questa terra di nessuno fra l’ordine giuridico e il fatto politico e fra la legge e la sua sospensione.
Ricalcando la prima distinzione schmittiana, il giurista afferma che l’emergenza è conservativa, mentre l’eccezione è innovativa. «All’emergenza si ricorre per rientrare quanto più presto è possibile nella normalità, all’eccezione si ricorre invece per infrangere la regola e imporre un nuovo ordine». Lo stato di emergenza «presuppone la stabilità di un sistema», «l’eccezione, al contrario, il suo disfacimento che apre la strada a un sistema diverso».
La distinzione è, secondo ogni evidenza, politica e sociologica e rimanda a un giudizio di valutazione personale sullo stato di fatto del sistema in questione, sulla sua stabilità o sul suo disfacimento e sulle intenzioni di coloro che hanno il potere di decretare una sospensione della legge che, dal punto di vista giuridico, è sostanzialmente identica, perché si risolve nei due casi nella pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali.
Quali che siano i suoi scopi, che nessuno può pretendere di valutare con certezza, lo stato di eccezione è uno solo e, una volta dichiarato, non si prevede alcuna istanza che abbia il potere di verificare la realtà o la gravità delle condizioni che lo hanno determinato.
Non è un caso che il giurista debba scrivere a un certo punto: «Che oggi si sia di fronte a un’emergenza sanitaria a me pare indubitabile». Un giudizio soggettivo, emanato curiosamente da qualcuno che non può rivendicare alcuna autorità medica, e al quale è possibile opporne altri certamente più autorevoli, tanto più che egli ammette che «dalla comunità scientifica provengono voci discordanti», e che quindi a deciderne è in ultima istanza chi ha il potere di decretare l’emergenza.
Lo stato di emergenza, egli prosegue, a differenza da quello di eccezione, che comprende poteri indeterminati, «include soltanto i poteri finalizzati allo scopo predeterminato di rientrare nella normalità» e tuttavia, concede subito dopo, tali poteri «non possono essere specificati preventivamente».
Non è necessaria una grande cultura giuridica per rendersi conto che, dal punto di vista della sospensione delle garanzie costituzionali, che dovrebbe essere l’unico rilevante, fra i due stati non vi è alcuna differenza.
L’argomentazione del giurista è doppiamente capziosa, perché non soltanto introduce come giuridica una distinzione che non è tale, ma, per giustificare a ogni costo lo stato di eccezione decretato dal governo, è costretto a ricorrere a argomentazioni fattuali e opinabili che esulano dalle sue competenze.
E questo è tanto più sorprendente, dal momento che dovrebbe sapere che, in quello che è per lui soltanto uno stato di emergenza, sono stati sospesi e violati diritti e garanzie costituzionali che non erano mai stati messi in questione, neppure durante le due guerre mondiali e il fascismo; e che non si tratti di una situazione temporanea è affermato con forza dagli stessi governanti, che non si stancano di ripetere che il virus non solo non è scomparso, ma può riapparire a ogni momento.
È, forse, per un residuo di onestà intellettuale, che, alla fine dell’articolo, il giurista menziona l’opinione di chi «non senza buoni argomenti, sostiene che, a prescindere dal virus, il mondo intero vive comunque più o meno stabilmente in uno stato d’eccezione» e che «il sistema economico-sociale del capitalismo» non è in grado di affrontare le sue crisi con l’apparato dello stato di diritto.
In questa prospettiva, egli concede che «l’infezione pandemica del virus che tiene in scacco società intere sia una coincidenza e un’opportunità imprevista, da cogliere per tenere sotto controllo il popolo dei sottomessi».
Ci sia lecito invitarlo a riflettere con più attenzione allo stato della società in cui vive e a ricordarsi che i giuristi non sono soltanto, come sono purtroppo ormai da tempo, dei burocrati a cui incombe soltanto l’onere di giustificare il sistema in cui vivono.
Giorgio Agamben, filosofo Quodlibet 30/7/2020
Tra urgenza ed emergenza: e la barca va
Tra Scilla e Cariddi. In acque tempestose, cioè, dove si confondono poteri d’urgenza con quelli d’emergenza. Questo perché, in buona sostanza, la Costituzione italiana (la più bella del mondo, si dice) prevede l’uno ma si tiene ben lontana dal secondo.
E questo iatus ha dato origine a una serie ben nota di deviazioni e curvature normative improprie, per ovviare alla paralisi di Esecutivi presi in trappola dal bicameralismo perfetto, e dai conseguenti tempi estenuanti per l’approvazione sia di riforme istituzionali persino minimali, sia di progetti di legge a iniziativa governativa.
Meccanismi, quelli parlamentari, che sono divenuti nel tempo veri e propri dispositivi di blocco per ostacolare e impedire decisioni rapide ed efficienti, ostacolate dall’estenuante potere di contrattazione e di veto che rappresenta la caratteristica aberrante di un sistema politico-istituzionale arretrato e paralizzato.
Negli anni, quindi, la bella trovata delle decretazione d’urgenza ha perso tutte le sue caratteristiche di eccezionalità, per diventare un veicolo ordinario di decisioni governative rapide, sancite dall’immancabile voto di fiducia con cui si dice (soprattutto) ai parlamentari riottosi della maggioranza “o si mangia questa minestra, o…” si va tutti a casa, con tanti saluti per le adorate poltrone.
Dall’uso discreto e appropriato a quello sistematico e improprio della decretazione d’urgenza il passo è stato abbastanza breve. Sicché, oggi il tempo di lavoro del Parlamento è praticamente assorbito dagli adempimenti conseguenti a dare corso alle iniziative governative, cosa che ha di fatto stravolto la divisione dei poteri.
Ovviamente, Costituzione o no, le emergenze vere fanno da sé. Tipo, terremoti devastanti, come quelli dell’Irpinia, dell’Aquila e di Amatrice per cui l’emergenza (che si avvera nella ricostruzione sia edilizia che economica) si somma e dura molto più a lungo dell’urgenza.
Ecco, forse sulla durata dei fenomeni con cui provvedimentalmente si affronta l’una (l’urgenza) e l’altra cosa (l’emergenza) si può ragionevolmente collocare il famoso punto di sella, matematicamente parlando, per cui la palla scivola per un fatto probabilistico lungo l’uno o l’altro versante.
L’avvento di una pandemia, per il punto che qui interessa, da che parte sta? Decisamente sul secondo fronte, quello emergenziale. Che, per l’appunto, in materia di sanità, prevede a norma di Costituzione l’attribuzione di particolari poteri provvedimentali e di surroga all’Autorità di Governo che sovrintende alle emergenze sanitarie, prescindendo dalla competenza territoriale delle diverse regolamentazioni e organizzazioni regionali in materia.
Del resto, a norma di buon senso, le epidemie non sanno che farsene e irridono i confini amministrativi nazionali e locali. Invece, in questo caso, si è preferito fare diversamente, potenziando al massimo livello istituzionalmente compatibile i poteri di decretazione e di intervento del presidente del Consiglio dei ministri.
Figura, quest’ultima, che una costituzione di fatto, ma formalmente incompiuta, intende disperatamente assimilare alla fattispecie del premierato, che pur esiste in altri ordinamenti di democrazie occidentali, ma non nella nostra.
Il perché lo conoscono ormai anche i sassi: i nostri (saggi) padri costituenti hanno evitato come la peste di inciampare perfino nelle ombre del potere assoluto di fascistica memoria. Procurando in questo modo una serie inevitabile di gravi danni collaterali, soprattutto in un’epoca come questa dove progresso e innovazione vanno incomparabilmente più veloci di un armamentario istituzionale, concepito culturalmente e intellettualmente quando i treni e le navi andavano ancora a vapore.
Così, accade che la dittatura vera delle Gafa (acronimo che ben descrive la Trimurti collettiva delle major americane digitali e mediatiche, Google, Amazon, Facebook, Apple e le loro consociate) fa sì che sia la grande rete globale www a costruire il consenso di massa, con capi di Stato e di Governo (Papa Francesco compreso) che inviano tweet, spesso contraddicendosi, o pubblicano post incendiari su Facebook contenenti il loro pensiero quotidiano, per coagulare il consenso di milioni di followers sulle loro parole non più mediate né dal Deep, né dell’Apparent State degli Apparati amministrativi e istituzionali.
E noi come abbiamo rimediato al gap costituzionale della mancata regimazione dei poteri di emergenza? Con le consuete furbate all’italiana. Da Vermicino in poi, con la creazione del sottosegretariato Giuseppe Zamberletti, la Protezione civile (tranne il Corpo dei Vigili del fuoco) venne scorporata dal ministero dell’Interno per costituire un apparato autonomo al quale, nel tempo, vari provvedimenti legislativi conferirono poteri e risorse straordinarie per far fronte alle varie emergenze e catastrofi naturali.
Il pilastro di questo centro propulsore dell’intervento d’urgenza è rappresentato dalla Dichiarazione dello stato di emergenza che consente all’Autorità commissariale di Protezione civile, sotto il diretto coordinamento del presidente del Consiglio dei ministri, di adottare tutta una serie molto complessa e articolata di decreti conseguenti, in deroga alle disposizioni vigenti, soprattutto di tipo contabile e nello svolgimento di gare e appalti pubblici.
Voi capite bene che, prolungando l’emergenza per un tempo stimato in base a un giudizio tecnico-politico, si verticalizzano a dismisura le decisioni dell’uomo solo al comando, domiciliato a Palazzo Chigi.
Il punto vero è: quando finisce l’emergenza? Nel caso di una pandemia globale, la risposta è del tutto ovvia: fintanto che l’Oms non ne dichiara la fine. Coerente, no?
Ma, allora, fatemi capire: la maggioranza di governo attuale ha i numeri per adottare un disegno di legge di revisione costituzionale (ex articolo 138 della Costituzione) al fine di introdurre in Costituzione proprio la mancata regolazione dei poteri di emergenza. Se lo facesse, ne sono risolutamente convinto, avrebbe tutto l’appoggio incondizionato dell’Opposizione.
Con una decisa avvertenza: cari politici, fate prima di tutto un bel benchmarking (confronto sistematico, n.d.r.), e andatevi a vedere come la cosa funzioni negli altri Paesi dell’Unione e del mondo occidentale. Dopo di che, formulate pure proposte serie e coerenti. Inciso: non costa nulla. Nel senso che è indipendente dal Mes e dal Recovery fund.
Maurizio Guaitoli L’Opinione 30/7/2020
“Per l’esecutivo il vantaggio di una emergenza permanente è che anche le cose banali possono essere realizzate come se appartenessero a uno situazione di emergenza. Se tutto è una situazione di emergenza, tutto il potere è potere di emergenza.”
Garry Wilss (1934), giornalista e storico americano
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