Era giunta l’ora di resistere, scriveva Piero Calamandrei nel suo Diario, riferendosi al 1943. E’ giunta l’ora, oggi, di resistere o continuare a resistere al progetto criminale di dominio globale chiamato Grande Reset ( con le sue continue e diaboliche “emergenze”) e alle sue propaggini qui, da noi.
Ed è giunta l’ora di resistere alla parola d’ordine del Grande Reset: resilienza. Parola mefitica, micidiale ( che in se sarebbe positiva ma dipende da chi la usa, appunto). Parola subdola, viscida, untuosa, fraudolenta, gesuitica proprio a causa di chi la sta usando da due anni ( anzi dagli anni 10 del XXI secolo) nei documenti ufficiali italiani, europei, mondiali e nelle predicazioni manipolanti dei media.
Parola che è l’esatto opposto della parola Resistenza ma che, abituati da sempre a non pensare, a non riflettere, ingoiamo come oche giulive e, casomai, ci fa pure piacere.
Resilienza: parola che forse neanche conosciamo ma che i criminali gestori del Grande Reset conoscono molto bene, molto ma molto bene. Loro.
Resilienza: parola degli “ercolino sempre in piedi” ( ricordate la vecchia pubblicità?) che più batoste ricevono dalla dittatura sanitario-digitale, più sono spaventati, chiusi in casa, presi in giro con brevi periodi da “ora d’aria” come adesso, più sono siringati, tamponati, mascherati, distanziati, impoveriti tra pseudo-virus e pseudo-guerre e più si rialzano beoti e rintronati, fiduciosi nel “sol dell’avvenire” non del socialismo ( che non esiste più) ma del Grande Reset.
Resilienza: trionfo del pensiero debole, debolissimo, infinitesimale, nano-microscopico, inesistente…
Resilienti: i servi sciocchi di ciò che la micidiale Agenda 2030, elaborata a Davos ai World Economic Forum degli ultimi anni da Big Money, Big Pharma e Big Tech, ha previsto come nostro futuro distopico e devastante per la dignità umana. Agenda che il nostro governucolo sta attuando piano, piano, un passo dopo l’altro.
Ma forse neanche la conosciamo questa Agenda. Allora siamo buoni per la resilienza. (GLR)
Resiliente sarai tu!
Cosa c’entra la “resilienza” nel Piano Nazionale che deve salvare l’Italia? Esegesi brutale di un termine duttile (cioè: falso) che ci desidera tutti tonti, inebetiti, disarmati e sorridenti.
Semplicemente, resilienza è una parola da abolire, da far bollire nella rabbia, da obliare. Le parole non sono neutre: rimestano destini, evocano incubi, impongono una visione del mondo. Al di là dei buoni intenti e dei tanti soldi (“L’Italia deve combinare immaginazione, capacità progettuale e concretezza, per consegnare alle prossime generazioni un Paese più moderno, all’interno di un’Europa più forte e solidale”: se giocate a sudoku con gli aggettivi vien fuori il Socing) la prima cosa che avrebbe dovuto fare Mario Draghi al Governo è incenerire la parola resilienza. Con un “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” dove mai possiamo andare? (leggi)
Che cosa dobbiamo ‘riprendere’ se abbiamo perso tutto, da cosa dobbiamo ‘riprenderci’ se ci hanno disossato, se siamo spettri nel sottosuolo? Ripresa come ripartenza: congiura da gergo calcistico, giogo della vanità, gioco. Proficuo. Per alcuni.
Resilienza: parola pallida, che solletica, stimola all’inettitudine, alla resa, all’attesa della benedizione di Stato.
Con le parole non si gioca, però, perché la formula magica pronunciata male sortisce l’effetto contrario, l’antidoto si muta in veleno, il vaccino in panacea per alcuni e malia per i restanti. Resilienza per dire che si cambia per non cambiare nulla – il talento gattopardesco nel dare nobiltà alla rovina –, per tornare come prima, per ripartire (e andare dove?), reprimendo i desideri contrari, la catarsi nella contraddizione.
Ma l’uomo non è resiliente; l’uomo è famelico, sorge da una fame, “corre via, corre, anela… cade, risorge, e più e più s’affretta”, come dice Leopardi. Anela, desidera fino all’affanno; vuole; corre; e crolla; e risorge. Questo è l’uomo. La resilienza annienta l’anelito in anodina adesione, stordisce l’affanno nella pace dei sensi. Ma l’uomo – rassegnatevi – non è in pace. Anela. Sbava. Vuole. Corre. Non si fa imbambolare dagli anestetici in denaro.
È impressionante il successo che questo vocabolo, dalla vocazione lieve, ha avuto, la sua mutazione genetico-grammaticale. La sua duttilità, però, ne svela la menzogna. Possiamo fare della parola resilienza quel che vogliamo: essa è resiliente a ogni interpretazione. Così, resilienza è la “capacità di riemergere da esperienze difficili, avversità, traumi, tragedie, minacce o significative fonti di stress, mantenendo un’attitudine sufficientemente positiva nei confronti dell’esistenza” (De Mauro): è cioè, la capacità di subire il trauma e rialzarsi come nulla fosse; mentre resiliente secondo la Treccani va “riferito a persona che oppone resistenza, che si difende con forza”.
Eppure, ci è chiesto di essere resilienti proprio per non opporci con forza, per non lottare, accettando, supini, il miracolo concesso dal taumaturgico governo. È resiliente, in sostanza, chi si china e si rialza, come le canne al vento: immoto, sorridente, imbecille.
Resiliente è chi non crea ostacoli, chi incassa i colpi senza ribellione, chi si affida, piacione, compiacente, compiaciuto; chi non ha attese proprie, chi non pretende di avventurarsi oltre noto, chi non si avventa nel notevole. Resiliente è chi non si indigna, chi non agisce per istinto, campione del bel gesto, chi non rischia; il resiliente è bene educato, genericamente elegante, di buon senso e di buon gusto, in fila.
Invece: non si riparte – eventualmente, ci si avventura, corsari al fato, corsivi a ogni imposizione – e non si sopporta il trauma col sorriso. Siamo fatti per precipitare, per morire interamente, siamo qui perché ci fratturino gli stinchi e un ghigno di sangue ci squarci il costato. Il dolore è sempre indimenticabile; la mancanza non si colma nel sudario della speranza, nell’effluvio dei sorrisi di circostanza, nella catabasi tra le frasi ad effetto, effervescenti, positive, la postura dei vili, dei postulanti.
Non ho un posto da cui ripartire perché sono perennemente da un’altra parte, nell’eremo degli irraggiungibili; non sono resiliente perché preferisco la reattività dei rettili, o la violenta indifferenza dei felini, la sapienza di chi abita nell’incanto dell’inafferrabile, il nitore del gesto puro, che segue la natura dei venti più che l’estasi delle statistiche economiche.
Resilienza, cioè – parola di stampo latino ma che abbiamo ripescato dopo essere stata risciacquata nell’Hudson e nel Tamigi, che idioti –, pare, come serendipity, che andava di moda qualche anno fa, l’emblema dell’attuale neolingua, degna fattura del grigio regime odierno, dove tutti, simpaticamente, coccolosi, devono fare la propria parte, cioè stare al proprio posto, rispettando le minoranze (alcune, per lo meno), alieni all’arte dell’ira e dell’individuo sovrano, i caratteri che dall’Iliade in qua hanno fondato l’Occidente.
Resilienza, cioè, porta con sé un’idea bastarda di mondo, che prevede l’equivalenza dei volti, la generosa gestione delle masse, l’inettitudine dell’io, inerme, disarmato, recluso in casa, con connessione gratuita. Resilienza si accorda all’epoca della statistica e dell’algoritmo, della connessione per tutti, appunto – che ci disconnette dalla comunità –, ci relega al cupo tempo dell’utile, certi che solo acquazzoni di denaro sapranno sostenere un Paese privo di spirito; è una parola adatta al brand, da brandire nelle circostanze pubbliche, è una parola fotogenica perché fasulla, che si può svendere.
D’altronde, servi della neolingua, inabili al neologismo – il carisma dei poeti, il sintomo di una civiltà linguisticamente eccelsa, aggressiva nel pensare – subiamo la resilienza dal politburo europeo, come ha scritto Maria Vittoria D’Onghia: (leggi)
“In verità è stata l’Unione Europea ad aver dettato la strada e aver definito il significato di resilienza che l’Italia sembra interpretare in questo senso. , di finanziare interventi all’interno di un disegno di rilancio e di transizione verso un’economia più sostenibile e meglio preparata a gestire crisi climatiche, economiche e sanitarie. È la Commissione Europea a stabilire i criteri con cui valutare la validità dei piani proposti da ogni Paese, secondo un regolamento intitolato Recovery and Resilience Facility Plan. La resilienza delle riforme proposte in Italia è quindi di fatto la Resilience pensata dall’Europa”.
Quasi quasi, ci coglie una vaga nostalgia per le sigle mitragliate in serie dalla vecchia, torbida Unione Sovietica. Soviet Supremo; Comitato esecutivo centrale; Consiglio dei commissari del popolo; Ministero per la Sicurezza di Stato; Contrasto al dissenso politico interno… Sovnarkom, Glavlit, Nkvd… Che parole rotonde, che sigle esatte, perfino gnostiche, metalliche, inscalfibili, per nulla resilienti, o tutto o nulla, la ferocia che schiaccia e ammette la disapprovazione, il samizdat, la strategia della dissidenza, la dissoluzione di ogni istanza.
Proprio ieri, sul “Riformista”, Fulvio Abbate ha scagliato anatemi contro la Resilienza, “la parola giusta per criceti medi”: bravo Fulvio! (leggi).
Fondiamo un gruppo di resistenti alla resilienza, di reazionari al mortifero, mortificante contagio della resilienza, che ci vuole tutti inebetiti, ebeti, immuni allo scandalo. Un gregge, appunto. Eppure, Mario Draghi non ha il volto del gattopardo né quello della pecora. Pare un camaleonte. Trasformismo.
https://www.lintellettualedissidente.it/ 29/4/2021
ANNO III DEL REGIME SANITARIO-DIGITALE
Raccolta di sospetti eventi avversi da “vaccini anti Covid-19”, in ordine cronologico, provenienti dalla stampa italiana e internazionale. Inseriti così come pubblicati in origine, anche in lingua originale non tradotta. Lista aggiornata continuamente.
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