Il 4 giugno 1942, a Roma, a casa dell’avvocato antifascista Federico Comandini in via Canina 6 (quartiere Flaminio) venne fondato clandestinamente il Partito d’Azione ad opera di uomini repubblicani, liberalsocialisti e socialisti liberali ( in rappresentanza di tanti altri sparsi per l’Italia o in esilio).
Il nome riprende quello del Partito d’Azione fondato da Giuseppe Mazzini nel 1853 e sciolto nel 1867.
ll primo Partito d’Azione fondato da Mazzini aveva tra i suoi obiettivi le elezioni a suffragio universale, la libertà di stampa e il sostegno alle campagne militari di Giuseppe Garibaldi per raggiungere l’Unità d’Italia in senso repubblicano.
Al Partito d’Azione mazziniano s’ispirarono in seguito il pensiero politico di Piero Gobetti (1901- 1926) e Carlo Rosselli (1989- 1937) e del futuro Partito Repubblicano Italiano, fondato nel 1895.
Il Partito d’Azione rinacque nel giugno del 1942 a Roma e i suoi membri saranno chiamati “azionisti” e il suo organo ufficiale e clandestino sarà “L’Italia libera“.
Il Pd’A si ispirava al liberalismo progressista di Piero Gobetti e tra i suoi fondatori figuravano numerosi militanti di Giustizia e Libertà (fondato da Carlo Rosselli ed Altri nel 1929 e durato fino al 1940), tra i quali Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Nello Traquandi.
Il Pd’A si formò dall’incontro dell’eredità del pensiero repubblicano e morale di Mazzini, del liberalismo progressista di Gobetti, del socialismo liberale di Carlo Rosselli e di Giustizia e Libertà e del liberalsocialismo di Guido Calogero e Aldo Capitini, movimento soprattutto fiorentino.
Il Pd’A fu l’incontro di due “eresie”: quella del socialismo ( Carlo Rosselli) e quella del liberalismo (Guido Calogero), per cui il Pd’A sarà sempre un “eresia” nella società e nella politica italiana.
Erano tutti uomini formatisi nella cospirazione antifascista, nelle galere, nelle trincee di Spagna durante la guerra civile (1936-39) e studiosi la cui vita si era svolta nelle biblioteche e nelle accademie, liberali ed ex comunisti, riformisti e rivoluzionari, protestanti e cattolici: uomini che rappresentavano la parte migliore della storia d’Italia di quel periodo.
Il partito si proponeva come scopo principale la realizzazione di un progetto di equità, accompagnato dalla giustizia sociale e dalla fede incrollabile nella democrazia e nella libertà. Aveva inoltre come ideali l’europeismo e un antifascismo assoluto.
Sentiva inoltre la necessità di costituire una formazione politica antifascista, a metà strada fra la Democrazia Cristiana, definita immobilista e invischiata nel potere della Chiesa in Italia, e il Partito Socialista e Comunista, con i quali gli Azionisti discordavano riguardo alla proprietà privata e alla visione classista.
Il 4 giugno 1942, durante la riunione costitutiva del partito a casa Comandini, vennero elaborati sette punti programmatici contenenti le indicazioni di massima della futura politica azionista:
- Costituzione di una repubblica parlamentare con classica divisione di poteri
- Decentramento politico-amministrativo su scala regionale (Regionalismo)
- Nazionalizzazione dei grandi complessi industriali
- Riforma agraria (revisione dei patti colonici)
- Libertà sindacale
- Forte laicità dello stato e separazione fra Stato e Chiesa
- Proposta di una federazione europea dei liberi stati democratici
A ciò va aggiunto l’impegno per una decisa de-fascistizzazione delle istituzioni, per la costruzione di un modello di società basato sull’etica nella politica e nella comunità, per un’assoluta visione repubblicana delle istituzioni e per una classe dirigente veramente preparata ed eticamente forte. Tutte cose che il Pd’A nella sua breve vita cercò di fare con grande responsabilità.
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, dopo aver fondato nel 1943 il Movimento Federalista Europeo, aderirono al Pd’A.
Il Pd’A divenne, a partire dal 1943, uno dei sette partiti che formarono il Comitato di Liberazione Nazionale durante la Resistenza, a cui partecipò da protagonista assoluto con le proprie “Brigate Giustizia e Libertà“ che ebbero, in percentuale, il maggior numero di Caduti..
Dopo la guerra, il Pd’A partecipò alla nascita di un governo d’unità nazionale che guidasse la ricostruzione democratica ed economica dell’Italia finchè nel giugno del 1945 ottenne la Presidenza del primo governo dell’Italia Liberata (il governo del CLN) con Ferruccio Parri, presidente del partito e già vice-comandante del Corpo Volontari della Libertà che guidò la Resistenza italiana.
Fu questo il momento di massimo consenso e potere per il Pd’A ma l’inizio delle logiche politiche internazionali legate alla “guerra fredda”, a cui il Pd’A non volle mai accondiscendere, portarono alla caduta del governo Parri nel novembre ’45. Questo fatto diede inizio al declino del Pd’A che, per il suo rigore morale e per la sua non disponibilità a compromessi politici, rimase isolato dai grandi partiti di massa (DC e PCI) che cominciavano a dominare la scena politica e sociale.
Al primo congresso del partito del 4-8 febbraio 1946 a Roma emersero divisioni interne al P.d’A.: il partito approvò l’adesione alla nascita dell’ Assemblea Costituente ma poi le divisioni fra le due correnti principali (socialismo liberale e liberalsocialismo) esplosero. Infine le elezioni del 2 giugno 1946 furono un fallimento per il Pd’A che ottenne solo l’1,5% dei voti e 7 eletti.
Il 20 ottobre del 1947 a Roma il partito, privo di una strategia in grado di ridurre il distacco dai partiti di massa che il risultato delle elezioni aveva fortemente evidenziato, si sciolse.
I suoi membri, in seguito, aderirono soprattutto al Partito Socialista, altri al Partito Socialista Democratico Italiano o al Partito Repubblicano, pochi altri entrarono nel Partito Comunista e nel Partito Liberale. In seguito, alcuni di essi (per es. Leo Valiani ed Ernesto Rossi) furono fra i fondatori del Partito Radicale nel 1955.
Ma la straordinaria visione etica del Pd’A innervò la politica italiana come “resistenza” allo scivolare della Repubblica verso la partitocrazia, verso una defascistizzazione monca, verso una laicità dello Stato carente, verso una logica perversa “degli affari” e del potere, verso un’ingiustizia sociale sempre più evidente, verso la “strategia della tensione” iniziata con la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 in Sicilia e ancora in corso.
Oggi il pensiero e l’esempio del Pd’A sono ancor più di attualità come “resistenza” alla dittatura sanitari0-ecologico-digitale instaurata in Italia dal 9 marzo 2020, espressione del progetto criminale globale chiamato Grande Reset: una nuova forma dell’ “eterno fascismo”.
Gruppo Laico di Ricerca, 4 giugno 2024
Che cosa ci insegna la storia del Partito d’Azione
La formazione politica erede della Resistenza visse una breve stagione. Ma si batté per la scelta di una classe dirigente forte contro la crisi. Come è necessario fare oggi. Parla lo storico Giovanni De Luna, mentre usciva la nuova edizione del suo saggio
Quando uscì il libro, quarant’anni fa, il nodo storiografico era perché il Partito d’Azione fosse finito nell’arco di un quinquennio. Oggi la domanda è perché l’azionismo sia durato così a lungo, tanto da riuscire a dirci qualcosa ancora oggi”. Giovanni De Luna scioglie il paradosso di una tradizione politica scaturita dall’innesto di correnti ideali diverse – liberaldemocratica, socialista liberale, Giustizia e Libertà – , sopravvissuta nella forma di partito solo dal 1942 al 1947, ma destinata a permeare la cultura novecentesca e il primo quarto del XXI secolo.
L’occasione è la riedizione del volume che rappresentò una pietra miliare negli studi sul PdA, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, riproposto ora da Utet con il nuovo titolo Il partito della Resistenza.
“Ricordo le presentazioni di allora, con tutti i protagonisti ancora vivi. Norberto Bobbio. Vittorio Foa. Alessandro Galante Garrone. Leo Valiani. Dopo i primi cinque minuti di rituale elogio dell’autore, riprendevano ad accapigliarsi come se fossimo ancora al congresso fiorentino della scissione. Credo che il libro abbia rappresentato per loro una sorta di liberazione. Sottrasse il partito ai ricordi e glielo riconsegnò come storia. Non erano più costretti a difendere le posizioni d’un tempo, ma diventavano attori di una vicenda con la quale potevano misurarsi serenamente“.
Come si spiegava allora il sostanziale fallimento dell’avventura politica?
“L’opinione prevalente era che il partito fosse destinato a soccombere per la sua intrinseca contraddittorietà. Troppi ossimori in una stessa formazione: liberalsocialismo, comunismo libertario, il binomio giustizia e libertà per il quale Benedetto Croce aveva evocato l’immagine di un ircocervo. Secondo questa interpretazione, fu l’eccesso di discordanze a segnarne l’epilogo“.
E lei la condivideva?
“No, al contrario. Trattandosi di un partito novecentesco, ero convinto che fosse stato il mancato radicamento nei ceti medi a decretarne la sconfitta. Gli ossimori invece ne rappresentavano la ricchezza: più che il segno della disgregazione, mostravano quello della ricerca e della fantasia progettuale“.
È quindi nelle contraddizioni la chiave della prolungata fortuna?
“Sì, la pluralità di anime e la ricerca inesausta di possibili soluzioni fecero fatica a coagularsi in un’esperienza partitica, ma crearono le condizioni perché l’azionismo agisse come un fiume carsico nel corso della storia repubblicana, capace di affiorare nei momenti di crisi e transizione. Luglio del 1960, il Sessantotto, la fine degli anni Settanta, l’inizio dei Novanta: tutte le volte in cui occorreva inventare un nuovo progetto, l’azionismo è apparso il paradigma politico più efficace. È nella sua dimensione incompiuta che va cercato il segreto della tenuta“.
Se il partito d’azione ha resistito per pochi anni, gli azionisti hanno dominato la scena culturale per oltre un secolo.
“Gli azionisti, le loro irripetibili personalità , sono l’altra chiave del successo di una tradizione culturale. Indipendentemente dall’approdo politico successivo – il partito repubblicano per Ugo La Malfa, quello socialista per Emilio Lussu e Francesco De Martino, il Psiup e la Cgil per Foa, la militanza culturale e non partitica per Bobbio, Galante Garrone, Nuto Revelli – erano profondamente legati da una forte identità che discendeva anche da un dato esistenziale: tutti, ma proprio tutti, riconoscevano nella Resistenza il punto più alto della loro biografia. Anche La Malfa ricordava come momento fondamentale della sua formazione aver seminato i chiodi a tre punte per impedire ai tedeschi di proseguire l’azione di guerriglia. La lotta partigiana fu l’appuntamento con la storia“.
Per questo ha cambiato il titolo del libro in “Il partito della Resistenza“?
“Il riferimento non è solo all’esperienza storica vissuta contro i nazifascisti. In quel passaggio mostrarono uno slancio ideale che sarebbe stata la cifra del loro riformismo militante. Seppero dare alla gradualità del riformismo quella dimensione messianica che il riformismo socialista di Turati non aveva. I loro morti nelle fasce medie e alte del partigianato furono molto superiori a quelli dei comunisti.
E questo accadeva perché avevano una concezione quasi sacra della lotta politica. Riferendosi al loro sacrificio, Piero Calamandrei parlò espressamente di “religione”. Gli azionisti furono capaci di costruire un piccolo pantheon della religione civile degli italiani in cui ancora ci riconosciamo. E la Carta costituzionale recepì molto del loro afflato religioso”.
È la ragione per cui negli anni Novanta, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, furono oggetto di una violenta polemica.
“Furono ritratti come voltagabbana, cacciatori di prebende, utili idioti al servizio dei comunisti. Venivano colpiti personalmente, ricordo ancora il dolore di Bobbio per la pubblicazione della sua lettera giovanile a Mussolini. Venivano attaccati perché rappresentavano l’unica tradizione decente e pulita della sinistra italiana. Dopo il crollo del Muro di Berlino, i comunisti avevano buttato a mare anche ciò che di buono avevano fatto, scomparendo dall’arena dell’uso pubblico della storia. E l’azionismo sopravviveva come il solo filone culturale che potesse fare da scudo all’antifascismo“.
Il bersaglio era l’antifascismo. E “azionista!” divenne quasi un insulto.
“L’antifascismo era il paradigma di fondazione della prima Repubblica che andava cancellato per far posto alla seconda. Su questo ci fu una piena concordanza tra Lega, Forza Italia e una larga parte dei mezzi di comunicazione di massa, tra giornali e Tv. La Resistenza fu rappresentata come un’orgia di sangue, i partigiani come macellai. Il 25 aprile una festa da liquidare”.
Colpisce che la tradizione culturale dell’azionismo sia presente nella scena politica del nuovo secolo: ancora oggi ci si richiama ai valori del socialismo liberale.
“Io credo che l’attualità dell’azionismo debba essere trovata nella capacità dei suoi protagonisti di selezionare una classe dirigente. Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, due grandi azionisti meridionalisti, riflettevano sulla possibilità di trovare “i cento uomini d’acciaio”. Chi sono gli uomini di acciaio? Sono personalità adeguate all’emergenza, capaci di esprimere il meglio del paese. Gli azionisti non puntarono alla rivoluzione sociale o alla dittatura del proletariato, ma alla costruzione di un ceto politico all’altezza della sfida del tempo. Seppero trasformarsi da intellettuali a combattenti, e poi furono capaci di guidare la ricostruzione“.
Grazie anche all’aiuto delle altre forze democratiche, riuscirono a risollevare il Paese in poco tempo.
“I verbali del governo Parri raccontano un Paese distrutto. In Italia non c’erano più le case né i trasporti, solo macerie materiali e morali. Nell’arco di tre anni, dal 1945 al 1948, gli indici della produzione industriale tornarono ai livelli di dieci anni prima. E intanto fu scritta la Carta Costituzionale. Il miracolo non è una categoria storiografica e quindi tutto ciò può essere spiegato solo con la forza e la competenza di quelle classi dirigenti. È questo il principale lascito dell’azionismo, soprattutto in un momento di confusione come il nostro: la capacità di scegliere gli uomini all’altezza della sfida”.
La selezione era avvenuta allora in piena emergenza, negli anni di guerra.
“Ma questo rende ancora più attuale una tradizione culturale che ha rivendicato l’occasione storica del disastro: allora era il tempo del ferro e del fuoco, oggi è la pandemia con la grave crisi economica e sociale. Per ricominciare bisogna dotarsi di quello slancio progettuale, senza avere paura degli ossimori”
Simonetta Fiori, La Repubblica Cultura 10/4/2021
ANNO V DEL REGIME SANITARIO, ECOLOGICO, DIGITALE
Ricordiamo che il Gruppo Laico di Ricerca è, fra l’altro, un centro di ricerca sul pensiero di Giuseppe Mazzini, sulla storia del Partito d’Azione e sul pensiero politico e morale Azionista.
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In particolare v’invitiamo a leggere:
Il governo della Resistenza: IL GOVERNO PARRI
Due fratelli per Giustizia e Libertà: CARLO e NELLO ROSSELLI
Un "golpe bianco": LA CRISI DEL GOVERNO PARRI.