Ogni dittatura, specialmente questa sanitario-ecologico-digitale voluta dal progetto criminale globale chiamato Grande Reset e iniziata in italia il 9 marzo del 2020 ( leggi QUI ), è squallore immane e suscitatrice di miserabilità e desolazione morale nella gente.
Allora, soprattutto in periodi sordidi come questo, è necessario, urgente e inderogabile che ascoltiamo le voci di grandi Uomini/Donne del passato ( che seppero Resistere contro le dittature con cui ebbero a che fare) per nutrire la nostra Resistenza e la nostra Dignità oggi ( Leggi QUI).
Voci come quella di PIERO CALAMANDREI (1889-1956, leggi QUI).
Il grande Padre Costituente ci ricorda ancora oggi la necessità urgente ed estrema della MEMORIA di Coloro che hanno donato la vita per un’Italia libera e dignitosa e per la sua Costituzione.
“Morti” che ci giudicano su ciò che noi facciamo o non facciamo, ora, per opporci a questa dittatura infame del Grande Reset e per non disperdere il loro prezioso lascito.
“Morti” che non dobbiamo tradire e con i quali “dobbiamo fare i conti“, se in noi è rimasto un barlume di vita morale e di gratitudine.
“Morti” che sono tutt’altro che morti.
Si, non dobbiamo tradirli credendo alle false emergenze sanitarie, climatiche ed ambientali e alle narrazioni del mainstream asservito sulle guerre in corso e sul tragico genocidio a Gaza.
Si, non dobbiamo tradirli facendoci spaventare, facendoci sottomettere e addomesticare ( come è avvenuto per la pseudo-pandemia covid), facendoci manipolare nel corpo e nell’anima.
Si, non dobbiamo tradirli diventando adoratori creduloni ed inconscienti dell’efficienza del mondo digitale, dell’IA, del transumanesimo e della scienza come nuova religione dogmatica.
Si, non dobbiamo tradirli non facendo la nostra parte per difendere la Libertà e la Dignità, per difendere gli Ideali, i Valori e i Principi repubblicani.
Si, non dobbiamo tradirli perdendone personalmente la Memoria.
Il grande scrittore e Resistente cileno LUIS SEPULVEDA (1949- 2020) scrisse che ” Un popolo senza Memoria è un popolo senza futuro“.
E, molto probabilmente, grazie alla nostra “smemoratezza” superficiale e colpevole non avremo nessun futuro se non quello tragico e distopico che i criminali gestori del Grande Reset ci stanno preparando… (GLR)
Da un discorso di Piero Calamandrei all’Assemblea Costituente. Roma, luglio 1946.
…
Ho finito così, onorevoli colleghi, le mie osservazioni di carattere generale sulla nuova Costituzione. Vi ringrazio di avermi ascoltato con tanta benevolenza e così a lungo.
Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c’è l’impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne.
Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica.
Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: sopratutto di lealtà.
Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente.
Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.
Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.
Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.
Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini.
Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità.
Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia.
A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.
Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.
Non dobbiamo tradirli.
Da un discorso di Piero Calamandrei tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, alla presenza di Ferruccio Parri (1890- 1981).
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In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti.
E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi dieci anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi.
In tutte le celebrazioni torna, ripetuta in cento variazioni oratorie, una verità elementare che nelle lettere dei condannati a morte è espressa come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considerato la loro fine come una conclusione e come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa, che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire.
Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che son loro che giudicano noi.
Questa non è una frase retorica, non è un artifìcio pietoso destinato a consolare le madri di averli perduti: è che veramente noi sentiamo, quasi con la immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti.
Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: è la nostra vita, che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre.
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Questi uomini, di qualunque partito e di qualunque fede, dicevano prima di morire tutti la stessa frase: “muoio per un’idea”.
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Per questo lo spirito di sacrificio che animò gli eroismi della Resistenza può essere considerato come un fattore continuativo di rinnovamento politico e sociale.
Già nel periodo della Resistenza questo spirito di sacrifìcio si dimostrò capace di animare e di nobilitare gli atti più umili della vita quotidiana, dando ad essi (o per meglio dire scoprendo in essi) un senso di solidarietà sociale, un senso di partecipazione alla vita collettiva: ed è proprio per questa esperienza che la Resistenza, nata in guerra come abnegazione eroica di fronte alla morte, può diventare in pace, tradotta per dir così in termini di ordinaria amministrazione, il senso del dovere politico, il senso della politica intesa come dovere di sacrificarsi al bene comune, che è poi il fondamento morale senza il quale non può vivere una democrazia.
Da un discorso di Piero Calamandrei tenuto il 26 gennaio 1955 a Milano, nel Salone degli affreschi della Società Umanitaria, davanti a studenti universitari e medi.
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Ora vedete, io ho poco altro da dirvi.
In questa Costituzione di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli.
E a sapere intendere dietro questi articoli, ci si sentono delle voci lontane.
Quando io leggo: nell’articolo 2 “L’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale”
o quando leggo nell’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli”, “la patria italiana in mezzo alle altre patrie” ma questo è Mazzini! Questa è la voce di Mazzini.
O quando io leggo nell’articolo 8 “Tutte le confessioni religiose, sono ugualmente libere davanti alla legge” ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell’articolo 5 ”La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” ma questo è Cattaneo!
O quando nell’articolo 52 io leggo, a proposito delle forze armate “L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, l’esercito di popolo, ma questo è Garibaldi!
O quando leggo all’articolo 27 “Non è ammessa la pena di morte” ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria!!
Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione!!
Dietro ogni articolo di questa Costituzione o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.
Quindi quando vi ho detto che questa è una Carta morta: no, non è una Carta morta.
Questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.
Per completare le grandi parole di Calamandrei ricordiamo ciò che scrisse un grande Resistente cèco poco prima di essere impiccato dai tedeschi, l’8 settembre 1943: JULIUS FUCIK (leggi QUI).
Nel libro di Fucik “Reportage scritto sotto la forca” troviamo queste parole di altissimo valore morale e civile tra tutte quelle scritte dai Martiri della Resistenza europea:
Non dimenticate.
Vi chiedo una sola cosa: se sopravvivete a questa epoca non dimenticate.
Non dimenticate né i buoni né i cattivi.
Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi.
Un bel giorno oggi sarà il passato e si parlerà di una grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia.
Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi.
Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell’ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il cui nome resterà.
Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia,
come voi stessi.
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