Perché questo governo non è molto di sinistra

Continuità su immigrazione e carceri. e una comunicazione populista e paternalista

Ogni situazione estrema rende più evidenti le caratteristiche di attori e contesti che ne sono coinvolti. Così, nel mezzo della pandemia, possiamo meglio scorgere alcuni caratteri del nostro governo per rispondere alla domanda: che governo è quello guidato dal «punto di riferimento per i progressisti» Giuseppe Conte?

Ammettiamo che la domanda è un po’ tendenziosa, perché qualche tempo fa Conte, pur non rinnegando il progressismo, in un’intervista televisiva precisò che, ecco, in realtà lui sentiva piuttosto di esprimere «un’area innovatrice per lo sviluppo sostenibile», ça va san dire inclusiva e aperta, in grado di accogliere anche i neneisti (né destra né sinistra) del Movimento 5 Stelle.

Riformuliamo dunque la domanda: che governo è il Conte II un po’ progressista, un po’ innovista e un po’ neneista, ma fiero oppositore delle destre? È un governo molto in continuità con quelle “destre” (parliamo di destra radicale) e, come quelle, dai tratti populisti.

I decreti sicurezza non sono mai stati abrogati. Con il coronavirus è giunto il capolavoro: un decreto interministeriale per chiudere i porti alle navi straniere che compiono salvataggi nelle aree Sar non italiane, violando, come ha osservato Vitalba Azzollini, regole internazionali e l’obbligo di salvare vite umane. Con la preoccupazione di non «compromettere la funzionalità delle strutture nazionali (…) di assistenza e cura ai pazienti Covid-19», che evoca lo slogan leghista «prima gli italiani» (rimandiamo al suo intervento su lacostituzione.info).

Salvini sfruttava e sollecitava l’avversione verso gli immigrati; i giallo-rossi, avvolti in uno spesso manto di ipocrisia, evitano di andare in controtendenza rispetto a un sentimento che ritengono diffuso e da non contrastare.

Passiamo dai naufraghi ai carcerati. Dopo le rivolte, con morti, nel momento di esplosione del virus e delle prime misure di restrizione nelle carceri, nell’informativa al Senato il ministro della Giustizia Bonafede si impegnò soprattutto a spiegare che lo Stato non arretra di fronte all’illegalità, piuttosto che mostrare consapevolezza della drammatica situazione nei penitenziari.

Il governo, a differenza che altrove, è intervenuto per diminuire il sovraffollamento in una misura largamente insufficiente, rimanendo la popolazione carceraria ben superiore alla disponibilità di posti. D’altro canto, è nota l’inclinazione del ministro, e del suo partito, il M5S, ad adottare misure volte a riempire piuttosto che ad alleggerire le carceri. C’è molta differenza con il “pugno duro” di Salvini e Meloni? La risposta che Bonafede ha dato alla Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva chiesto quali misure intendesse adottare per proteggere i detenuti dal contagio non è stata resa nota: il tema non è in agenda.

Lo stesso Conte, nei suoi “discorsi alla nazione”, non ha mai fatto intravedere una reale comprensione per le difficoltà che stanno vivendo i più deboli e marginali, per i concreti problemi che la pandemia sta creando. Temi come la solitudine degli anziani, le violenze in famiglia, il disagio mentale, la mancanza della disponibilità di strumenti tecnologici, esplosi nella quarantena, non affollano l’agenda di governo.

Se poi aggiungiamo l’inesistente propensione a costruire un concreto percorso di gestione della crisi per consentire al Paese di affrontarla con meno danni possibile, unita al perdurare di scelte ideologiche (il balletto sul Mes), una produzione normativa di dubbia legalità, la personalizzazione sulla figura di Conte, una comunicazione paternalistica che non spiega, ma impone, il barcamenarsi tra pressioni e opinione pubblica, diventa più comprensibile il nostro giudizio iniziale.

La pandemia è la cartina di tornasole della natura del governo Conte: un mix di populismo e gestione del potere.

I drammi del paese non costituiscono problemi da risolvere, ma accidenti da gestire in funzione di quel potere e del miscuglio ideologico che lo sorregge. La differenza con la destra populista è soprattutto una differenza di stile. Meno di contenuti e pratiche.

Sofia Ventura        L’Espresso  3/5/2020

 

 

Col lessico di guerra la democrazia ha abdicato

La pandemia ha portato a una regressione della sfera collettiva. Che si declina nel linguaggio bellico e nella cessione di potere ai nuovi tecnici

L’era del coronavirus nella quale ci siamo improvvisamente ritrovati (anche se non inaspettatamente, dati gli allarmi che provenivano da qualche tempo dal mondo scientifico) ci sta trasfigurando. E gli effetti più evidenti li ritroviamo, oltre che nella tragica situazione sanitaria e in quella rovinosa dell’economia, anche in tutta una serie di modificazioni della psicologia collettiva e del linguaggio che la veicola.

«Siamo in guerra con il coronavirus», come hanno annunciato praticamente tutti i primi ministri e capi di Stato dell’Occidente (da Emmanuel Macron a Boris Johnson, da Donald Trump a Giuseppe Conte); e, prima di loro, Xi Jinping con la sua «guerra di popolo» contro l’invasore virale. E come aveva ribadito pure Mario Draghi nel suo intervento sul Financial Times del 25 marzo 2020, aggiungendo che «bisogna agire» prontamente.

Una comunicazione istituzionale di guerra, con una retorica da XIX secolo e un arsenale iconografico di politica ufficiale (ma anche pop, composto di diluvi di memi), in cui la metafora bellica la sta facendo da padrona – e dove ricorre come nume tutelare l’immagine del Winston Churchill dell’«ora più buia» (altra citazione costante).

La polemologia applicata alla medicina non costituisce certo una novità, e i richiami all’economia di guerra per descrivere lo scenario catastrofico nel quale siamo piombati risultano malauguratamente molto pertinenti.

Ma quello che si registra a livello semantico è uno scivolamento senza sosta nella bellicizzazione tanto della politica che della conversazione comune (o, per meglio dire, del sentimento e dei social digitali, visto che la socializzazione in carne e ossa è sotto scacco). Sulle cui conseguenze per la convivenza sociale e il tessuto civile del dopo lockdown sarebbe bene porsi degli interrogativi.

Come pure sull’effettiva capacità di mobilitazione della popolazione che viene attribuita alle parole guerresche, anche se vengono spese da figure importanti di leader politici e opinion-leader. E anche in questo il Covid-19 ci sta ovviamente ricacciando in un passato che si mescola a un immaginario da distopia fantascientifica fattosi drammaticamente reale.

Un’iper-realtà letteralmente virale, per come la intendeva Jean Baudrillard, che può venire a suo modo considerato alla stregua di uno dei primi studiosi della «collassologia» e dell’aspetto visuale delle crisi.

E, giustappunto, da molti punti di vista, iperreale è anche lo stato d’eccezione che viviamo. Così, anche nel linguaggio politico la campagna elettorale permanente dei leader cede il passo alla dicotomia secca amico/nemico, dove il secondo corrisponde all’aggressore virale, che spazza via la dialettica e il dibattito tra i partiti.

E in questo modo, per l’appunto, il linguaggio della politica compie un balzo all’indietro, a prima degli anni Venti del Novecento quando, negli Stati Uniti, il lessico del marketing e della pubblicità commerciale aveva rimpiazzato quello bellico nel riferimento agli affari pubblici e nelle formule di una comunicazione politica che si strutturava per la prima volta in modo moderno. Mentre oggi ritorna prepotentemente, innanzitutto sull’onda di quella vera e propria ossessione comunicativa del premier italiano di cui ha scritto Marco Damilano in un suo recente editoriale.

In questi mesi la pandemia che mette in discussione il nostro modello di vita sta generando una terribile (e inimmaginabile) regressione della sfera collettiva e delle nostre esistenze private.

E tutti quanti i governi e le classi politiche, nella «battaglia» contro di essa, rispolverano la retorica e le narrative belliche che, nel caso italiano, prevedono giustappunto anche uno «stato maggiore» (il comitato tecnico-scientifico degli esperti di palazzo Chigi) e alcuni «generali» e «comandanti in capo», i virologi.

Che si rivolgono alle loro «truppe in prima linea» – dalla condotta in molti casi davvero «eroica» – e alla cittadinanza sempre più spesso dagli schermi televisivi. A ben guardare, l’infettivologo versione aggiornata della figura del tecnico-tecnocrate, oppure consacrato come star dei talk show, non cade come un fulmine a ciel sereno nel luttuoso panorama pubblico contemporaneo. Ma rappresenta, sotto più di un profilo, l’erede di un importante movimento scientifico-culturale dell’Italia dopo il 1861.

Quello dell’igienismo ottocentesco e primo-novecentesco, di fatto un filone del positivismo che fornì una pagina di rilievo della tribolata storia dello Stato postunitario, durante la quale alcuni medici puntarono ad assumere direttamente cariche politiche per cercare di influire sui processi di modernizzazione e sul progresso sanitario di un Paese reale assai gracile e malaticcio.

Un’eredità che rimanda inequivocabilmente all’odierno paradigma immunitario della biopolitica e della messa in sicurezza di una popolazione spaventata dal contagio, ma che evoca anche molto le inadeguatezze mostrate dalla classe politica nazionale (a partire dalla sottovalutazione dei rischi per le libertà costituzionali e i diritti individuali generati dalla gestione della crisi attuale).

Nell’Italia post-Unità furono i medici igienisti a entrare in Parlamento e dentro le istituzioni alla ricerca di uno spazio di azione, mentre oggi assistiamo a quello che è solo l’ultimo capitolo di quell’abdicazione della politica nei confronti della tecnica che ha via via contraddistinto il Paese del dopo Tangentopoli.

E di cui la caotica babele di task force varate per pianificare il post-picco epidemico offre una raffigurazione esemplare. Non messe, però, nelle condizioni di valorizzare adeguatamente le competenze che le compongono e, probabilmente, giocate pure in una chiave di paralisi reciproca. Iperreale, per l’appunto, se la situazione non fosse davvero drammatica.

Massimiliano Panarari      L’Espresso  3/5/2020

 

 

Fermate l’uomo solo al comando

In un durissimo attacco espresso nel corso di Omnibus, programma in onda la mattina su La7, Matteo Renzi ha accusato il premier Giuseppe Conte di essersi messo sotto i piedi la Costituzione “più bella del mondo”. Il suo, a mio avviso, molto tardivo j’accuse è stato motivato dalla fine, scritta nei dati, dell’emergenza che aveva travolto le terapie intensive in alcune regioni del Nord.

Personalmente ho sempre pensato che un sistema democratico, teoricamente basato su stringenti riserve costituzionali, come quelle legate all’intangibilità di alcune fondamentali libertà individuali, non potesse e non dovesse mai essere messo agli arresti domiciliari con 4mila dei citati posti in terapia intensiva occupati. Semmai occorreva, una volta dichiarata l’emergenza nazionale, canalizzare tutte le risorse possibili per potenziare in tal senso la capacità dei nostri ospedali.

Tuttavia, con meno di 2mila malati di Covid-19 ricoverati nelle stesse terapie intensive, e una capienza aumentata a 9mila posti letto, secondo il leader di Italia Viva non è accettabile che un presidente del Consiglio, in diretta televisiva, ci venga a dire ciò che possiamo e che non possiamo fare nella nostra già piuttosto immiserita vita sociale. Ci venga a ordinare come e chi incontrare. Ci venga a imporre il gioco insopportabile delle autocertificazioni anche per recarci con l’auto a fare una passeggiata in un parco cittadino situato a pochi chilometri da casa. Ci venga a imporre un limite demenziale al numero dei partecipanti, per la cronaca 15, ad un funerale. Ci venga a spiegare chi è e chi non è un congiunto.

Da questo punto di vista Renzi ha detto un cosa sacrosanta che fa parte da sempre nel dna degli autentici liberali di questo disgraziatissimo Paese: in un regime democratico regolato da una Costituzione degna di questo nome, il Governo può in alcune circostanza imporre una cornice di regole per salvaguardare la sicurezza collettiva, vedi mascherine e distanziamento sociale. Ma una volta stabilite dette regole, al medesimo Governo deve essere impedito di bloccare la libera circolazione dei cittadini.

Cittadini confusi e frastornati da una martellante propaganda a senso unico che li ha in gran parte terrorizzati, annichilendone quasi completamente il senso critico.

Una condizione che, ahinoi, ha avuto un riflesso assai grave anche nei riguardi dell’opposizione, preoccupata di essere presa per fiancheggiatrice del virus nel clima di isteria generale, e che è stata costretta a orientare le sue critiche essenzialmente sul piano delle misure economiche.

Tuttavia, come oramai stanno drammaticamente comprendendo pure i sassi, con la farsa di una Fase due che lascia sostanzialmente al palo una struttura produttiva al collasso, il colpetto di Stato messo in scena da un oscuro avvocato di Volturara Appula sta producendo danni quasi irreversibili al nostro tessuto economico, anche in considerazione che il resto d’Europa e del Mondo avanzato ha da tempo ripreso quasi del tutto la vita normale.

E se non si interverrà quanto prima per fermare con metodi democratici l’azione liberticida di un irresponsabile uomo al comando, a cui sembra interessare solo il consenso di un popolo a cui è stato inoculato il virus della paura, l’Italia rischia di non riprendersi mai più.

Claudio Romiti     in  www.opinione.it   28/4/2020

 

 

“L’uomo veramente grande è colui che non vuole esercitare il dominio su nessun altro uomo e che non vuole da nessun altro essere dominato.”

Khalil Gibran (1883- 1931), poeta e pittore libanese

 

 


 

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