Pubblichiamo parte dell’introduzione al libro di Diritti e libertà nella storia d’Italia in uscita in
questi giorni per l’editore Donzelli.

Libertà e diritti sono iscritti in testa alle costituzioni. La storia di ieri e di oggi, tuttavia, ci parla di sospensioni delle garanzie costituzionali, di ragion di Stato e di emergenze che giustificano la limitazione o la cancellazione di diritti fondamentali, di pieni poteri concessi ai governi, di tentativi continui di considerare le libertà riconosciute «eccessive» rispetto a esigenze di controllo sociale o di sviluppo economico. La lotta per i diritti non può mai concedersi appagamenti, pause o distrazioni. L’esperienza del Novecento ci ha poi mostrato come la sola proclamazione costituzionale di libertà e diritti possa risolversi in un inganno, in un’inesistente barriera contro l’oppressione. Seguendo la traccia delle costituzioni dei paesi a “democrazia socialista”, a cominciare da quella sovietica del 1925, ci si avvede agevolmente dello scarto enorme – e crescente, via via che si consolidavano le logiche autoritarie – tra altisonanti promesse di diritti e pratiche oppressive d’ogni libertà individuale e collettiva.Quelle proclamazioni, comunque, rimangono lì come una pietra di paragone, come la testimonianza continua d’una cattiva coscienza (…). Come testimonia, in particolare, la storia di quest’ultimo quindicennio, le vicende delle libertà e dei diritti mostrano la lenta inclusione di un numero crescente di cittadini nel demos e le diverse modalità attraverso le quali si costruisce la moderna cittadinanza, nel succedersi delle diverse “generazioni” dei diritti. Ma rivelano anche tenaci resistenze all’effettività dei diritti proclamati, difficoltà materiali nelle apparenze invincibili, sconfitte.  Serve una grande fede per affermare i diritti nei tempi difficili. E di questo la vicenda delle libertà, che è poi vicenda concretissima di donne e di uomini, è testimonianza continua. Il Novecento è stato anche il secolo nel quale ai diritti civili e politici si sono affiancati quelli sociali, così giungendo a connotare una forma di Stato, appunto lo Stato «sociale». Anche qui dati formali e materiali si intrecciano, e la crisi dello Stato sociale spinge ora a revocare in dubbio la natura di «diritti» di molte delle situazioni alle quali i poteri pubblici avevano esteso la loro garanzia. Altri interrogativi si affacciano, la stessa «grammatica dei diritti» viene messa in discussione, ci si chiede fino a che punto il diritto statuale, sia pure con l’intento di accrescere la tutela degli individui, possa penetrare nei «mondi vitali». L’età dei diritti sarebbe avviata verso il tramonto? Intanto, però, non si arresta la marcia dei diritti, e da tempo si parla di una loro «quarta generazione», dove confluiscono la sensibilità planetaria per i temi ambientali, i dilemmi della vita e della morte che accompagnano la bioetica, la «cittadinanza elettronica» associata alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non si tratta soltanto di allungare un «catalogo», ricorrendo magari a una logica compensativa che vedrebbe i nuovi diritti prendere il posto dei non più sostenibili diritti sociali. Proprio la ricostruzione storica, sia pure sintetica, ci mostra, da una parte, che il tema delle libertà e dei diritti fa corpo con l’intera vicenda dei soggetti che concretamente l’incarnano; e, dall’altra, che il loro riconoscimento formale può rappresentare prima il consolidamento di risultati ottenuti grazie all’azione politica e sociale e, poi, il punto d’avvio per una nuova e più esigente rivendicazione di diritti. Oggi l’intero fronte dei diritti ci appare in movimento, tanto da identificare il vero terreno di scontro politico agli inizi del nuovo millennio. Come per la democrazia, così per le libertà e i diritti non vi sono esiti o confini segnati una volta per tutte.

 

Stefano Rodotà       la Repubblica  21 marzo 2011

 

 

I cittadini calpestati

Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l’ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare. Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell’acqua. Le torsioni dell’ordinamento giuridiconon finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell’emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell’”effetto Fukushima”, che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull’acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia. Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell’irrompere continuo della logica ad personam.

 L’uomo che ogni giorno invoca l’investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini. Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull’acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell’acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell’abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia. Caduti i referendum sul nucleare e sull’acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo. Quest’ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di “legislatore negativo”.

 L’aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull’acqua è bene tornare per un momento sull’emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell’emendamento che prevedono l’abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite «nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea». E lo farà entro dodici mesi adottando una «Strategia energetica nazionale», per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare «gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum» e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente». Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell’emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l’acqua. Di questo dovrà occuparsi l’ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa. Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell’opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell’approvazione dell’emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall’obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell’umanità.

Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull’acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l’aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l’opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l’opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l’ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.

 

Stefano Rodotà      la Repubblica  22 aprile 2011

 

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