Berlusconi ha detto ieri che i magistrati sono criminali e che vanno come tali trattati. Lo aveva già anticipato parlando qualche giorno fa nell’improvvisato happening di fronte alla sua residenza romana, condendo il suo gravissimo ed ennesimo colpo alla Costituzione repubblicana con barzellette e linguaggio scurrile, quasi a voler allontanare l’attenzione dell’opinione pubblica da ciò che aveva pronunciato. Il suo attacco alla magistratura e l’identificazione della giustizia con la persecuzione non sono né nuovi né inediti: sono la carta d’identità di Berlusconi.
Le circostanze dettano il linguaggio, non il contenuto che resta immobile come la terra nel sistema tolemaico. Quando le acque nella sua maggioranza si fanno burrascose tiene metodi di trattativa e moderati. Una volta rinsaldata l’alleanza, magari con l’autorevolezza del voto parlamentare come in questo caso, metodi, forme e linguaggio riprendono la loro solita andatura e ritornano a battere sul tema più vicino agli interessi del premier: l’attacco all’indipendenza della magistratura giustificato nel nome di una sovranità totalizzante del popolo, o meglio ancora della sua parte più numerosa (il mito del 51% come clava punitiva contro i suoi supposti nemici).
La sovranità della parte più preponderante non è sovranità democratica, ma dominio, soprattutto quando coltiva la pericolosissima ambizione di dichiararsi identica alla sovranità democratica della nazione italiana. A questo linguaggio demagogico, il presidente del Consiglio si affida quando si sente rinsaldato nei consensi; quando può tornare a riprendere la sua lotta contro la giustizia per affermare la sua giustizia. L’obiettivo lo conosciamo: mettere la magistratura alle dipendenze del potere politico, toglierle quella indipendenza che, vale la pena ricordarlo, non gli è stata data da altri che dal popolo stesso, nella sua massima espressione di sovranità, quella della scrittura della Costituzione. La nazione italiana ha deciso di fare della magistratura un potere indipendente dal parlamento e dall’esecutivo, per renderla dipendente sola dalla legge. Il presidente del Consiglio la vorrebbe invece dipendente dall’opinione politica che fa la legge e dal governo. La differenza è enorme; è quella che passa tra un sistema maggioritario (un’espressione barbara ma efficace) e un sistema democratico costituzionale. La minaccia rivolta ad alcuni magistrati di aprire una commissione parlamentare d’inchiesta è la vera novità di questi giorni, una proposta che è il coronamento dell’ormai incontenibile tracimazione di questo governo dai limiti costituzionali. Uno sprovveduto o uno che non abbia seguito la traiettoria ideologica di Berlusconi in questi tre lustri potrebbe restare sorpreso di fronte a un liberale che si fa capo-popolo e propone la centralità della volontà politica sulla giustizia. Non è forse vero che la storia di Forza Italia era cominciata a colpi di propaganda liberal-liberista? Che cosa ha a che fare Friedrich von Hayek (uno degli autori più citati da chi si è identificato con Forza Italia) con il maggioritarismo del presidente del Consiglio?
Nella tradizione liberale classica, il governo e l’organizzazione normativa della vita pubblica sono giustificabili in quanto funzioni al servizio di un fine superiore e precedente: la difesa della proprietà, della vita, della libertà degli individui. I diritti individuali sono il fine non contrattabile e soprattutto un bene che legittima il mezzo, ovvero il governo. Qual è il più sicuro presidio di questa libertà se non un sistema di giustizia autonomo da quella volontà di popolo che Berlusconi vorrebbe egemonica? Per i liberal-liberisti, quello repressivo è il compito centrale dello Stato, e in realtà la sua ragion d’essere. Una ragione che non va affiancata da compiti di altra natura se vuole essere efficace, per esempio da compiti di giustizia sociale. Affinché svolga questo compito al meglio, il solo legittimo, lo stato deve essere edificato secondo regole ben precise: limitato nelle sue funzioni; non centrato sul governo dell’assemblea; monitorato da chi obbedisce alla legge, non da chi fa la legge; e infine soggetto al giudizio elettorale dei cittadini. Il governo liberale è un governo costituzionale limitato fondato sul consenso nel quale il potere giudiziario svolge un ruolo centrale e che, proprio per questo, deve restare rigorosamente indipendente da quello politico. Il sistema della giustizia penale e civile è il potere più importante nell’idea liberale, la quale infatti vede nella politica solo un mezzo per coordinare in maniera indiretta (con il timore della coercizione) le azioni degli individui e per riparare agli errori e ai delitti che essi commettono o in buona fede o per malevola violazione della legge naturale e civile. Questo è lo Stato ‘minimo’ dei liberali; uno Stato al servizio di una società che, pensava Hayek, è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere diretto del governo o del parlamento, ma il cui potere giudiziario è ben funzionante, non usato a discrezione dei potenti e che opera secondo procedure impersonali e regole certe. Un potere, quello della giustizia che é assolutamente essenziale che resti “negativo”, cioè che non dipenda da chi fa e applica la legge. La nostra libertà è sicura – e i costituenti accettarono questa idea liberale – solo se chi la applica nei tribunali e nelle corti non dipende dall’opinione della maggioranza in carica, quale che essa sia. Berlusconi sarebbe inviso a tutti i liberali. Ora, sarebbe interessante sapere come i “liberali” che abitano la casa delle libertà giustificano questo scivolamento nel dispotismo della maggioranza, il più temuto degli orrori per i liberali di tutti i tempi e paesi.
Nadia Urbinati la Repubblica 4 ottobre 2010