È forte, in Italia, la tentazione di parlare della democrazia al passato. Facendo riferimento, cioè, a un sistema istituzionale che “c’era”, ma oggi è, appunto, “passato”. Ridotto agli aspetti formali e impoverito nella sostanza. Tanto che, per definirlo, si usano altre formule. Tra le più fortunate: Postdemocrazia. Coniata (nel 2004) da Colin Crouch, per indicare il percorso assunto dai sistemi democratici, ormai lontani dai valori e dagli obiettivi della democrazia anche se non (ancora) antidemocratici. Alfio Mastropaolo, nello stesso periodo (2005), parla di “mucca pazza della democrazia“. Per significare come la democrazia abbia contaminato se stessa, riducendosi a uno scheletro di procedure. Nella stessa direzione si pone un altro termine, di largo uso: populismo. Dove il popolo è un’entità indistinta, piuttosto che una comunità partecipe di cittadini. Questa lettura, in Italia, si è affermata negli anni del berlusconismo. Riassunto dai critici (e non solo) come l’esempio estremo – e irripetibile – di post-democrazia. Per le tendenze i tratti che lo caratterizzano. Anzitutto: la personalizzazione e la mediatizzazione. I partiti ridotti a “una” persona, che comunica con i cittadini attraverso i media e, soprattutto, la televisione. Creando una democrazia im-mediata. Cioè: non mediata, se non attraverso i media.
In secondo luogo, l’imporsi dell’Opinione Pubblica come equivalente – e sostituto – degli elettori e dei cittadini. Considerata un’entità “reale”, misurabile empiricamente. Sinonimo e riflesso del “popolo”. Definito dalla “volontà popolare”, sancita dal voto, Ma, ancor più e sempre più dai sondaggi. Questo percorso è ricostruito, in modo originale, da Bernard Manin, autorevole filosofo politico francese, direttore all’Ehess di Parigi e professore all’Università di New York, in un libro dedicato ai Principi del governo rappresentativo. Tradotto e pubblicato in Italia, in questi giorni, dal Mulino. L’ultima parte, in particolare, si concentra sull’avvento della “democrazia del pubblico”. La formula, entrata nel linguaggio comune, descrive un’epoca in cui i partiti cedono spazio alle persone, l’organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, compensate dalla fiducia personale diretta. Il rapporto con la società e gli elettori avviene, sempre più, attraverso i media e il marketing politico. Manin parla di “democrazia del pubblico” perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio fra leader e “opinione pubblica”. Che avviene, prevalentemente, attraverso i media. In modo asimmetrico, perché a senso unico. È difficile non ricondurre la “democrazia del pubblico”, tracciata da Manin, alla “post-democrazia”. E, in particolare, al cosiddetto “berlusconismo”. Tuttavia, le prime – parziali – versioni del saggio risalgono a circa trent’anni fa. Quando Silvio Berlusconi era “solo” un imprenditore mediatico – potente e influente. Ciò riconduce l’Italia di Berlusconi nell’ambito di una tendenza politica e istituzionale più ampia. Che prende avvio “prima” della discesa in campo del Cavaliere. La “democrazia del pubblico”, peraltro, secondo Manin, non annuncia la crisi o, peggio, la fine del sistema democratico. Semmai, una “metamorfosi”. La personalizzazione, in particolare, non va considerata una degenerazione, ma un elemento costitutivo della democrazia rappresentativa. Perché la rappresentanza è, per sua natura, “personale”. Fin dall’origine, al tempo del parlamentarismo (nel XVIII e XIX secolo). Ma anche nell’epoca della democrazia – e dei partiti – di massa i rappresentanti erano – sono – persone, che esercitano un grado, più o meno ampio, di autonomia personale. Nella “democrazia del pubblico”, peraltro, i partiti non scompaiono, ma si riorganizzano – appunto. Intorno ai leader. Coerentemente con la presidenzializzazione dei governi occidentali. L’idea della postdemocrazia appare, per questa ragione, nostalgica. Evoca un’età dell’oro, quella dei partiti e della partecipazione di massa che, forse, non è mai esistita. E che, comunque, si è conclusa quando i partiti di massa si sono ridotti a oligarchie lontane dalla società. Investiti, anche per questo, da un’onda di sfiducia impetuosa e impietosa.
Respingere l’idea della “democrazia del pubblico” tutta insieme, trattare come “populista” ogni forma di partecipazione e di comunicazione che non segua la strada tradizionale del partito di massa, pone, semmai, alcuni seri problemi. In particolare, delegittima e, quindi, ostacola la ricerca di leadership “personali” capaci e “rappresentative”. Un problema serio, oggi, soprattutto per il centrosinistra, soffocato da partiti oligarchici. Inoltre, non permette di comprendere il significato vero dell’anomalia italiana. Che non coincide con la “democrazia del pubblico”. Ma con una questione assai più antica, alle radici della democrazia liberale. L’equilibrio dei poteri e dei controlli (a cui fa riferimento, tra i primi, il barone di Montesquieu). Tra le istituzioni di governo, gli attori della rappresentanza e, soprattutto oggi, l’Opinione Pubblica – garanzia di controllo e dibattito sulle pubbliche decisioni. In Italia questo equilibrio appare violentemente “squilibrato”. È questo l’aspetto che distingue il caso italiano dalle altre “democrazie del pubblico”. Non tanto il crescente ruolo dei media e delle persone, nelle istituzioni e nei partiti, neppure il ricorso sempre più ampio al marketing in politica. È, invece, la concentrazione dei poteri essenziali – governo, partiti, media – in una sola persona. La democrazia del pubblico non è post-democratica. Lo è, semmai, la “democrazia del pubblico all’italiana“.
Ilvo Diamanti la Repubblica 20 ottobre 2010