Può apparire inopportuno parlar di Natale sul manifesto, disteso com’è nella vignetta di Vauro sul lettino di rianimazione, moribondo per i colpi di Babbo letale Tremonti. Ma non è affatto inopportuno. Perché Natale vuol dire «rinascita» oltre ogni speranza: dal «no future» al «new future».
La cosa vale per tanti luoghi della lotta sociale, piazze, tetti, ciminiere, fabbriche e scuole occupate dove inevitabilmente la potente simbologia della rinascita legata al Natale viene intrecciata con i motivi della lotta riaccendendo il fuoco morente della speranza. È sempre stato così. Perché prima che essere una festività religiosa il Natale è un simbolo, anzi un insieme complesso di simboli legati al senso della rinascita perenne.
Come tale mantiene una potenza che si radica sia nel tempo lontano della millenaria evoluzione culturale, sia nel profondo, perché sgorga dall’inconscio, ne rivela i segreti, conduce alle origini più nascoste che motivano l’esistenza. Questo senso simbolico può alimentare la speranza in una situazione sociale e politica di totale disperazione per molti? Val la pena di spendere qualche spunto di riflessione.
L’inafferrabilità e la misteriosità del nostro essere crea in noi un senso di angoscia che tentiamo di elaborare attraverso appunto l’espressione simbolica. Tutto ciò che può richiamare il perenne nascere e rinascere dell’esistenza e della vita, oggetti, eventi, relazioni, è stato assunto nel corso dei millenni come strumento per dare senso. Non sappiamo da dove veniamo e non sappiamo dove andiamo e ci affidiamo al costante rinascere del sole che richiama la rinascita perenne come anima del cosmo intero.
Altro esempio sono i cicli dell’albero il quale fin da tempi antichissimi diviene simbolo di vita in continua evoluzione. Il grande antropologo romeno Mircea Eliade attribuisce al simbolo dell’albero ben sette diverse interpretazioni, tutte articolate intorno all’idea di cosmo vivente in perenne rigenerazione. Il Natale cristiano nasce su questa linea millenaria di creazione simbolica.
I racconti evangelici dell’infanzia di Gesù sono mitici, non storici. Non narrano fatti realmente accaduti. Gesù ad esempio quasi certamente non è nato a Betlemme, non in una stalla, e via di questo passo. I racconti evangelici dell’infanzia offrono simboli.
Essi portano l’eco di reali ansie, esperienze e progetti di vita delle comunità cristiane della fine del primo secolo. Di fronte alla morte in croce e al fallimento di tutte le loro attese di giustizia questa povera gente cerca di nuovo un senso alla propria esistenza alimentandosi ai simboli antichi della rigenerazione: tutto è vita, tutto muore e tutto rinasce.
Poi viene la Chiesa del potere imperiale che trasforma la nascita e la morte e la resurrezione di Gesù in un progetto divino di salvezza universale trascendente, ma senza riscatto storico.
E nascono due percorsi paralleli del cristianesimo: quello del potere e quello dei movimenti di base. A volte in conflitto, a volte intrecciati fra loro. È così che il sogno, il dolore e la volontà di riscatto e di liberazione delle prime comunità cristiane hanno dato nei secoli anima e senso alla gioia festosa del Natale.
Ma oggi che il sogno e il riscatto sono al lumicino e che il Natale affoga nel trionfo del mercato diventando una festa senz’anima, vale ancora la pena di guardare l’altra faccia, quella vitale e generativa, tenuta viva nei secoli da un cristianesimo ribelle?
Interessa a qualcuno: a studenti, precari, disoccupati, senza speranze? Oppure è solo archeologia? Si può abbandonare completamente la presa su una simbologia così potente? Forse no. Anche noi, Comunità dell’Isolotto, in solidarietà con tutta questa umanità resistente e il manifesto, proviamo ancora una volta a vivere creativamente il Natale nella Veglia che faremo alle Baracche dell’Isolotto di Firenze, a partire dalle 22,30 di oggi.
Enzo Mazzi, presbitero il manifesto 24 dicembre 2010
vedi: "Il Natale atroce" di Pasolini
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