La religione del libero mercato e i limiti profondi del capitalismo
Il nuovo libro di Hans Küng si intitola Onestà. Perché l’economia ha bisogno di un’etica ed esce da Rizzoli il 2 marzo (traduzione di Chicca Galli, pp. 372, € 20). In questa pagina anticipiamo un brano dedicato all’ «economia responsabile» . Onestà è un saggio contro la religione del libero mercato, e per la riscoperta dei valori che potrebbero rendere l’economia più equa e più efficace. L’ultima crisi, sostiene Küng, lo ha confermato: il capitalismo non è una scienza e, come il socialismo, ha limiti profondi che rischiano di portare la società al collasso. Il teologo, a cui nel 1979 la Congregazione per la dottrina della fede ha revocato l’autorizzazione a insegnare la teologia cattolica, analizza da una parte la globalizzazione e l’evoluzione dei mercati, dall’altra si interroga su concetti chiave come giustizia, equità, remunerazione. Küng crede in un’etica mondiale, valida anche per l’economia, basata su due principi: la reciprocità (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te) e l’umanità (ogni essere umano deve essere trattato umanamente). Con Rizzoli il teologo svizzero ha pubblicato vari libri, tra cui Ebraismo (1993), Cristianesimo (1997), Islam (2005), tutti disponibili nella Bur. L’anno scorso è uscito, sempre da Rizzoli, Ciò che credo.
Responsabilità, nella sua accezione comune, indica l’impegno a rispondere di un evento e a valutare con coscienza doveri e conseguenze nelle decisioni conflittuali. Nel XX secolo il concetto di responsabilità divenne un concetto chiave dell’etica. Ai nostri giorni, il presidente Barack Obama, nel suo discorso d’insediamento — per prendere le distanze dall’era Bush — ha invocato «una nuova era della responsabilità». Poteva solo intuire che genere di fardelli sovrumani questa responsabilità avrebbe caricato su di lui come presidente: la guerra in Iraq, che offende il diritto internazionale, quella inutile dal punto di vista strategico in Afghanistan, l’opposizione interna alla riforma sanitaria, la crisi finanziaria ed economica mondiale, infine la «catastrofe naturale» senza precedenti della marea nera nel Golfo del Messico, provocata dagli uomini. Tutto questo è accaduto anche in conseguenza della mancanza di responsabilità: proprio nel caso della fuoriuscita del petrolio in mare, l’irresponsabilità riguardava, da un lato, le aziende impegnate nell’estrazione, che hanno tralasciato diligenza e avvertimenti, dall’altro gli organi di sorveglianza corrotti, un’eredità di George W. Bush jr., l’ex presidente vicino all’industria petrolifera. Ma è già stato dimostrato: l’irresponsabilità in economia non paga; la responsabilità è richiesta anche per ragioni economiche. Il sociologo Max Weber ha proposto un’etica della responsabilità. Anche una tale etica, secondo lui, non è «senza convinzione», ma s’interroga sempre in modo realistico sulle «conseguenze» prevedibili delle nostre azioni e se ne assume la responsabilità: «Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione politica”».
Senza l’etica della convinzione, l’etica della responsabilità degenererebbe in una mera etica del successo priva di princìpi morali, per la quale ogni mezzo è lecito per raggiungere lo scopo. Senza etica della responsabilità l’etica della convinzione degenererebbe nella mera cura di un’interiorità soddisfatta di sé. Nella Dichiarazione per un’etica mondiale del Parlamento delle religioni mondiali (Chicago 1993), al termine della parte dedicata al secondo principio fondamentale, si trova la seguente frase: «L’autodeterminazione e l’autorealizzazione sono perfettamente legittime — fin quando non sono disgiunte dalla responsabilità verso i propri simili e verso il pianeta Terra». Prendendo le mosse da suddetta dichiarazione il filosofo Hans-Martin Schönherr-Mann spiega così la responsabilità: «Non solo volere il Bene, ma anche, nel giudizio etico, considerare razionalmente le conseguenze delle proprie azioni in relazione al loro scopo. L’individuo deve riflettere su cosa fa e sulle conseguenze di ciò che sta facendo. Non è sufficiente né rispettare le leggi né attenersi a determinate normemorali. La responsabilità diventa la parola-chiave di un’etica della globalizzazione in un mondo pluralistico di sistemi di valori in concorrenza».
Già alla fine degli anni Settanta il filosofo tedesco americano Hans Jonas ha analizzato a fondo il «principio di responsabilità» e lo ha riformulato per la nostra civiltà tecnologica, alla luce della situazione completamente mutata del mondo dopo la Seconda guerra mondiale, tenendo presente l’esistenza futura della specie umana, che oggi è messa seriamente in pericolo. L’uomo deve essere responsabile globalmente per bio-, lito-, idro-e atmosfera del pianeta. E tale responsabilità include — si pensi soltanto alla crisi energetica, all’esaurimento delle risorse naturali, alla crescita demografica — un’autolimitazione dell’essere umano e della sua libertà nel presente per amore della sua sopravvivenza nel futuro: si richiede così un’etica di nuovo tipo, un’etica della preoccupazione per il futuro (che rende avveduti) nel rispetto della natura.
Nel mio libro Progetto per un’etica mondiale (1990), ho fatto mia questa visione di Hans Jonas, con due modifiche. La prima è che con la responsabilità nei confronti del mondo si deve prendere in considerazione anche la responsabilità dell’uomo verso se stesso. Non si tratta solo di essere responsabili per l’ambiente, il prossimo, la posterità, bensì anche verso l’uomo stesso, che è un fine in sé e ha una responsabilità nei confronti della sua persona. Detto con parole elementari, ciò significa: l’uomo deve diventare più umano! Per l’uomo è bene ciò che gli permette di conservare, promuovere, realizzare il suo essere uomo. L’uomo deve sfruttare il suo potenziale umano per realizzare una società il più possibile umana e un ambiente intatto, in modo diverso da com’è avvenuto finora. E può fare molto di più di quanto non stia facendo. In questo senso il principio realistico di responsabilità e quello «utopico» di speranza (Ernst Bloch) vanno di pari passo. Al più tardi dalla Seconda guerra mondiale, ci troviamo a vivere un nuovo cambiamento di paradigma: dall’epoca moderna siamo passati a una postmodernità i cui contorni sono già delineati,
ma a cui non è stato ancora dato un nome che la definisca. Questo cambio di paradigma non ha come conseguenza una semplice decadenza di valori, come lamentano i pensatori conservatori, bensì un mutamento di valori: da una scienza eticamente libera a una eticamente responsabile; da una tecnocrazia dominante sull’uomo a una tecnologia al servizio dell’umanità dell’uomo. Una trasformazione della società, quindi, non contro la scienza, la tecnologia, l’industria e la democrazia, bensì in associazione con queste forze sociali a cui un tempo si attribuiva un valore assoluto e che invece oggi vengono relativizzate. I valori specifici della modernità industriale – diligenza (in latino: industria!), razionalità, ordine, coscienziosità, puntualità, sobrietà, operosità, efficienza – non devono essere semplicemente aboliti, ma piuttosto reinterpretati in una nuova costellazione e combinati con i nuovi valori del postmoderno: con l’immaginazione, la sensibilità, l’emozionalità, il calore, la delicatezza, l’umanità. Non si tratta di rifiuti e condanne, ma di contrappesi e progetti alternativi.
In tale contesto — ed è questa la seconda modifica rispetto alla visione di Hans Jonas — le religioni e le ideologie mondiali non debbono essere ignorate bensì integrate. Un’analisi della situazione mondiale che non tenga conto delle religioni del mondo è deficitaria in partenza. Ne consegue che la parola d’ordine del terzo millennio, nel concreto, dovrebbe essere: responsabilità della società intera nei confronti del proprio futuro, responsabilità per la contemporaneità, l’ambiente e anche per l’uomo in sé, la posterità. I responsabili delle diverse regioni, religioni e ideologie del mondo sono invitati a pensare e ad agire nel contesto globale e a tener conto nello stesso tempo delle persone reali. Ora, proprio l’economia mondiale spesso non è determinata dall’agire responsabile, ma dall’irresponsabilità. Desidero illustrarlo con due esempi concreti: l’avidità di guadagno, che si è estrinsecata in modo totalmente nuovo proprio in questi ultimi decenni, e la mendacità dilagante della politica. Né l’avidità di guadagno né la mendacità sono una faccenda meramente privata, ma possono diventare un problema sistemico. Per questo bisogna parlarne espressamente sulla base di casi reali. «Passion to perform», la passione della prestazione: dev’essere stato un brillante consulente per la comunicazione quello che ha potuto convincere la più grande banca tedesca a presentare il complesso delle sue attività sotto questo slogan. Succedeva prima della crisi economica; fino a quel momento nessuno aveva collegato il concetto di «passione» con il settore bancario. Uno si domanda: passione di chi? Del gruppo o delle filiali locali, dei top manager o dei singoli consulenti? E passione per cosa? «Passione» significa più di uno «stato di eccitazione» passeggero, indica uno stato d’animo emotivo che sovente la ragione fatica a governare. Esiste una passione creativa ma anche una passione cieca, distruttiva, esiste l’entusiasmo. Passione per cosa, allora? Ma è chiaro, risponderebbero alcuni impiegati di banca, è la passione di guadagnare il più possibile. E ciò non è un male in sé. È perfino qualcosa di positivo, nel caso di una banca che si è dimostrata capace di resistere alla crisi senza aiuti statali. Se però una banca, anche adesso che la crisi è ben lungi dall’essere superata, persegue di nuovo rendite del 25 per cento al netto della tassazione, molti si chiedono: come può farlo senza andare incontro a rischi troppo alti? A scapito di chi si ottengono simili utili? Perché non bastano un 12 o un 15 per cento come nell’economia reale? Per molti clienti, che hanno perduto parti considerevoli del loro patrimonio, comunque, un simile desiderio di guadagno lascia un retrogusto amaro. Non è un caso che durante la crisi la parola avidità («greed») fosse sulla bocca di tutti. Ora, «desiderare ardentemente qualcosa» è una caratteristica profondamente umana, e anche un desiderio molto forte e sentito può avere una valenza positiva o una negativa.
La «curiosità», il desiderio di imparare qualcosa di nuovo o la «brama di sapere», che è fondamentale per ogni studioso, sono costanti del comportamento umano. Come lo è, sotto un altro aspetto, aspirare a produrre utili, ad approfittare dell’incremento delle entrate e dei vantaggi a esse correlate. Ma questa non è l’avidità nel senso autentico del termine, che viene intesa quasi sempre in modo negativo: come desiderio incontrollato, smisurato, insaziabile. Non importa quale sia il suo oggetto, se si tratta di possesso, di guadagno, di potere, di sesso: il volerne avere sempre di più, senza riguardi per nessuno, è il contrario di una virtù cardinale, ed è in ogni caso un vizio diffuso a livello globale. E ciò non giova affatto alla stabilità finanziaria!
Hans Küng, teologo tedesco Corriere della Sera 25 febbraio 2011
vedi: 16 novembre 2010. Senza vergogna.
La natura è maligna ma la colpa è solo dell’uomo