In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all’attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell’Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l’essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt’altro che inclini all’indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla “formazione al settore produttivo”(queste le larghe vedute del Governo). La scuola pubblica è un’altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all’inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all’altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione.

E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento. Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di “appartenenza” – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall’altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l’un l’altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza. Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come “organo costituzionale”. Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell’intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v’è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d’essere rispettato, fuori di se stesso.

Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si “inculca” qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al “dirottamento” dei fondi pubblici verso le scuole private. Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l’obbligo dello Stato di istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico. Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l’innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al “settore produttivo”, si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Stefano Rodotà      la Repubblica  3 marzo 2011

 

 

Dietro il disastro della scuola

La scuola è uno di quegli argomenti del quale non ci si stancherà mai di discutere. Anche se troppi lo fanno e molto spesso a vanvera: ministri pedagogisti giornalisti insegnanti genitori, ma anche per fortuna, da poco, i soli autorizzati davvero a lamentarsi, gli studenti. Ahinoi tutti gli adulti, signori e signore (tante le signore, probabilmente perché la maggior parte degli insegnanti è ancora oggi di sesso femminile) non si accontentano di discuterne, e di immaginare soluzioni più o meno sagge o deliranti alla sua crisi, di scuola scrivono anche, tanto, troppo. È una constatazione ormai diffusa che i giornali parlano poco e male delle cose veramente importanti per un possibile (e ancora lontano) riscatto del paese Italia, della sua cultura e della sua sinistra. E’ una constatazione ormai comune che l’editoria libraria è molto più disponibile al genere inchiesta o denuncia (o sfogo) di quanto non lo siano i giornali, e per di più con una libertà che a quelli difetta, anche quando serve da invito allo sproloquio. Quando parlano di scuola, i giornali lo fanno con molta superficialità, privi di esperti e competenti e affidandosi semmai per le “opinioni” ai soliti vecchioni, a persone che se ne tengono lontane, agli psicologi selvaggi (una piaga, non solo nella scuola!), e alle solite damine benpensanti di buona famiglia. Una di queste, Paola Mastrocola, è tornata sul tema anche in questi giorni con un nuovo libro. I giornali la considerano chissà perché una super-esperta autorizzata a trattarne all’infinito, e non è che un’insegnante (se lo è ancora) tra mille e mille, anche se rappresenta bene la media. Lo leggerò, o comincerò a leggerlo ma, forte di letture passate, non me ne aspetto molto, anche se si dice che “ha moderato i toni” delle sue prediche di buon senso e di buona vendita.

Ho letto invece con interesse e partecipazione il “diario” di un anno scolastico di Silvia Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso, nella diseguale collana laterziana Contromano. L’ambientazione non è diversa da quella di altri libri e film sulla scuola in area romana (scrittori sceneggiatori registi produttori critici romani o romanizzati sono un’altra vistosa piaga della nostra cultura!) e lì per lì il taglio disinvolto della scrittura potrebbe far pensare a un altro Starnone (quello delle cronache scolastiche e delle sceneggiature) o un altro Piccolo eccetera. Invece no, il suo libro ha uno spessore insolito, è risentito e doloroso e inaccettante, e guarda al mondo con spaventata ma non moralistica capacità di vedere negli allievi il buono che si nasconde dietro la loro volgarità e beceraggine. Oltre il disastro della scuola, oltre le ipocrisie giustificazioniste o rivendicative degli adulti comunque “accettanti”, il disagio dei più giovani non può che commuoverci, spingerci a reagire. Nella scuola c’è una minoranza di insegnati come la Dai Pra’? Se sì, c’è da esserne felici. Se ci si chiede come mai la Dai Pra’ vede meglio e più a fondo, viene da pensare che sia questione di età, di generazione (si parla, sia chiaro, di minoranze). La Dai Pra’ ha trent’anni e ha affrontato il degrado scolastico o romano molto dopo altri insegnanti-scrittori e sa tenere a bada l’istinto del lamento così come quello un po’ ridanciano o che vede del bello dappertutto, e per quanto cresciuta tutta dentro il trentennio craxi-berlusconiano (e, diciamocelo, veltroniano) riesce però a distinguersene, e la minore età le permette un minor grado di tolleranza verso il mondo così com’è – lo sguardo sconsolato alla Starnone, o quello divertito alla Piccolo.

La scena chiave del diario è la visita che quest’insegnante delle serali a Ostia che si sentiva promessa a miglior carriera ma è stata obbligata a scendere a patti con la realtà per andare avanti, interessata più ai ragazzi del recupero che agli adulti della frustrazione, è la visita che fa con i suoi allievi a Montecitorio. Anche se proprio in quelle pagine ella dice che “le scene troppo emblematiche” non le piacciono, questa è una di esse, una scena da manuale. Un’allieva le dice, alla fine: “Prof, ma li pagano per fare questo?” Il diario di Silvia Dai Pra’ è fitto di situazioni e personaggi significativi, è a volte ripetitivo ma ripetitiva è per definizione la scuola. Anche se un anno è un anno le trasformazioni sono lente, e quel che può fare una brava insegnate è relativamente poco. Una brava insegnante vuol dire una minoranza assoluta di insegnanti che prendono molto sul serio la propria responsabilità nei confronti degli allievi, che partono anzi da quella. Può far poco, ma può stabilire una relazione viva e vera, utile e produttiva con gli allievi – eassai meno (o niente!) con un mucchio di colleghi vili e rinunciatari – se per gli allievi ha rispetto e attenzione, a qualsiasi grado di “barbarie” abbia potuto trovarli.

Goffredo Fofi       l’Unità  27 febbraio 2011


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