Intervista a Gustavo Zagrebelsky     a cura di Jean-Jacques Peyronel e Luca Maria Negro

È d’accordo nel considerare il 17 febbraio 1848 come una tappa fondamentale della lunga battaglia per la libertà di coscienza in Europa?

«Se c’è un elemento caratteristico dell’Europa, che fa parte della sua cultura, che dovrebbe renderci orgogliosi della nostra storia, è questo punto: l’Occidente con tutti i suoi vizi e limiti ha affermato la libertà di coscienza. Si può prendere il 17 febbraio per parlare di libertà di coscienza, ma forse sarebbe bene partire non solo dalla Riforma luterana ma da molto prima: dai valdesi medioevali. La libertà di coscienza viene normalmente riconosciuta da tutti gli studiosi di cose costituzionali come la base, la premessa di tutte le altre libertà. Può stupire che nella nostra Costituzione non si parli di libertà di coscienza. Questo perché la libertà di coscienza avrebbe equiparato in dignità tutte le coscienze. C’è un’uguale libertà ma la coscienza di qualcuno è un po’ più uguale delle altre. Credo che sia difficile per la Chiesa cattolica riconoscere che fuori della Chiesa ci può essere una coscienza che va rispettata come quella di coloro che stanno nella Chiesa».

In questa lunga battaglia per la libertà di coscienza, i puritani inglesi, padri fondatori nel ‘600 delle prime colonie in Nord America, preferirono lasciare il proprio Paese e la propria Chiesa pur di preservare la propria libertà di coscienza. Che effetto le fa di essere stato tacciato di «puritano giacobino» da parte di Giuliano Ferrara?

«Chi come me è stato attaccato in questi giorni è stato attaccato da una persona che viene da un mondo culturale davvero agli antipodi del nostro. Questo signore è colui che ha teorizzato l’uso politico della religione. Ora, questo modo di concepire il rapporto con la fede, credo che il giacobinismo o l’azionismo lo considerino una perversione e della politica e della religione. Nel dibattito politico odierno ho sempre cercato di tener distinti i piani: una cosa è il giudizio morale. Nelle vicende italiane la domanda non è: qual è il giudizio che dai su queste persone per le cose che fanno bensì: ci piace essere governati da persone di questo genere? Questa è una valutazione strettamente politica che non ha nulla a che vedere con la morale o il moralismo».

È d’accordo nel considerare la laicità prima di tutto come tutela della libertà di coscienza? E nel considerare la separazione tra chiese e Stato – e tra religione e politica – come logica e doverosa conseguenza di questo principio?

«Io direi questo, molto semplicemente: la laicità è l’opposto di quello che è capitato nel IV secolo dopo Cristo quando l’imperatore Costantino ha proclamato se stesso come il primo dei vescovi di Roma, e i vescovi come autorità civili. La laicità sparisce quando non c’è più la distinzione tra vita civile e vita religiosa, autorità civile e religiosa. Si ha laicità quando da entrambe le parti si riconosce all’altra di essere societas perfecta, di essere cioè, rispetto ai propri obbiettivi, perfetta, avere tutti gli strumenti adatti, necessari e sufficienti, non aver bisogno di aiuti altrui. Lo Stato deve riconoscere che la Chiesa, per la sua missione, può far da sé, e la Chiesa dovrebbe riconoscere allo Stato che, per la sua missione, esso non ha bisogno di supporti di fede. Oggi siamo in piena offensiva dell’idea della religione come religione civile. Il papa precedente e quello attuale hanno teorizzato la «nuova» o «sana» laicità… La laicità per la quale la religione non viene assunta a pretesto per persecuzioni ma come un aiuto alla vita civile. La premessa è che la società civile non è più societas perfecta, l’Europa è in piena crisi di valori, si sta disgregando e ha bisogno di un’iniezione di eticità per la vita civile, e la Chiesa è a disposizione. C’è il disconoscimento che il mondo civile è in grado di fare da sé, ha bisogno di un supporto esterno. Più questi discorsi vanno avanti, più è difficile mantenere l’equidistanza dello Stato nei confronti di  tutte le religioni. Anzi, questo tipo di pluralismo è indicato dagli atei devoti come la debolezza della nostra società. Se ci si deve rivolgere alla religione deve essere una, quella maggioritaria. In realtà, la pratica della laicità è condizionata da un fattore che non ha niente di spirituale, che è il potere. Perché le indicazioni del Sinodo valdese non danno luogo a reazioni? Perché sono senza potere, ma quando un’indicazione viene dalla Chiesa cattolica che è una grandissima potenza politica ed economica, è ben diverso. La differenza sta nello strapotere mondano della Chiesa. Quando si collega l’indicazione alle coscienze al potere, allora c’è un’alterazione del principio di laicità. Abbiamo un bel parlare di laicità come uguale rispetto di tutte le confessioni, come autonomia della sfera politica ecc. ma di fatto questi discorsi che si fanno sulla laicità non vanno alla radice. Sui principi molti sono d’accordo, ma quel che bisognerebbe mettere in luce è questa anomalia di una chiesa potenza mondana».

Che cosa pensa dell’accusa spesso rivolta dalle gerarchie cattoliche e anche da molte chiese protestanti che la laicità – sistematicamente ridotta a «laicismo» – abbia «relegato» le chiese nel privato? Non le pare che quando si parla di «spazio pubblico», ci sia una voluta confusione tra sfera politico-istituzionale, propria dello Stato, e società civile, in cui tutti hanno diritto di convivere pacificamente?

«Secondo me il dibattito che si fa in Italia è viziato dall’equivoco delle parole e delle categorie. Nessuno mette in dubbio che la religione appartenga innanzitutto alla sfera intima, che si può naturalmente esprimere coralmente e quindi pubblicamente. Ma poi c’è una differenza tra sfera pubblica e sfera politica. I livelli sono tre: privato, pubblico, politico; non dobbiamo mescolare il pubblico con il politico. Nella sfera politica, non ci sono le religioni come soggetti attivi, ci sono i cittadini i quali possono appartenere a una confessione o a un’altra o a nessuna. Non è vero che la democrazia è regime nichilista, come dice a volte il magistero cattolico. La democrazia è regime pluralista dove le istituzioni sono lì per contenere, rappresentare, esprimere le diverse posizioni in vista di sintesi, di compromessi nel rispetto ciascuno degli altri. Con il passare degli anni sono sempre meno fiducioso nella discussione sui massimi sistemi: dietro ai grandi discorsi sui valori c’è la materia bruta, il potere economico, finanziario, le influenze nel mondo della cultura… Io sono molto legato ai principi mentre considero i valori una cosa un po’ losca… Nel nome dei più grandi valori si possono commettere le peggiori azioni. In nome dell’armonia universale, diceva Dostoevskij, si possono versare fiumi di sangue».

 

in “Riforma” – settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi -   25 febbraio(24 febbraio 2011)


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