“Tanti auguri. Buona pasqua”. Questa cantilena riempie questi giorni. Perché si fa così, perché è un’abitudine come “buon natale” o “buon anno”. Auguri di cosa? Di star bene, mangiare bene, di aver fortuna: non si esce da questo solco. Eppure la parola “pasqua” significa ben altro. Viene dall’ebraico “pesach” e vuol dire “passaggio”. Per cui noi augureremmo “buon passaggio”.
Ma l’ignoranza dell’uomo medio non fa queste riflessioni. Anche perché caratteristica della mediocrità è proprio “il non passare” verso nulla. Ma rimanere lì, ciò che si è, in mezzo. Senza un passato da meditare e un futuro verso cui tendere che non sia l’aumento di stipendio o la salvaguardia personale. Dovremmo dire “ auguri. Buona conservazione”. Come i pelati o i sott’aceti. Gli antichi invece, tra cui gli ebrei, avevano forte il concetto di “passaggio” verso una vita “fertile di vita ( non di figli)”. Moltissime loro epopee parlano di viaggi che sono la metafora di percorsi interiori di miglioramento, di liberazione, di “resuscitamento”.
Per gli ebrei la Pasqua era l’Esodo, il grande viaggio di liberazione nel deserto verso una “Terra Promessa”, cioè verso un essere uomini umani tra umani uomini. Fecero coincidere la festa dell’Esodo, dell’ “uscita da…”, con una più antica festa pagana del primo plenilunio di Primavera, quando tutte le energie vitali della stagione della rinascita spingevano la Terra a produrre vita, cibo, bellezza e gli animali ( come le greggi di pecore) a generare nuovi agnelli, segno di continuità e di vittoria sul freddo e il sonno dell’Inverno.
I cristiani ( quelli veri delle origini) posero in questo stesso giorno la memoria, per la loro fede, di un uomo giusto come Gesù che aveva pagato con la vita il suo impegno di liberazione degli uomini e a cui Dio rendeva giustizia resuscitandolo, nel senso di affermare che una vita non chiusa nella mediocrità dell’autoconservazione, ma spesa per amore-liberazione non muore, mai . Questa era la Pasqua nei suoi significati originari, pagani, ebraici, cristiani: “passare” dalla morte alla vita. Da tutti i tipi di morte ad una vita vera, ricca di senso, con una ciclicità che ogni anno avrebbe visto l’uomo un po’ più libero e degno del suo essere uomo.
La stessa visione che è presente nell’Odissea di Omero ( IX sec. a. C.): Ulisse è un uomo “morto”, chiuso nella sua furba supponenza e nel suo eroismo da superuomo che espresse ampiamente nell’assedio di Troia, come racconta l’Iliade di Omero stesso, insieme con altri “eroi” orgogliosi e pretenziosi. Poi lui, dopo la conquista di Troia, deve tornare ad Itaca, l’isola in cui è la sua casa, la sua famiglia, il suo regno. Ma impiegherà dieci anni travagliati, un viaggio infinito in cui gli dei lo metteranno continuamente nella situazione di essere tentato di fermarsi e vivere una vita ancora più orgogliosa e supponente.
Gli dei, apparentemente nemici tranne Athena che è la sua consigliera, la sua auto coscienza, lo vogliono spingere a liberarsi dall”eroe” furbo e astuto che è in lui e farlo “passare” verso un’umanità personale libera da sè stesso e disposta ad accettarsi limitato e capace di umiltà. Tutto il suo viaggio è una metafora di un percorso interiore di passaggio dall’idiozia ( per i greci l’idiotes non era una persona stupida ma una persona chiusa nel suo particolare, che si negava alla costruzione del bene comune, la polis, la società) alla dignità umana. Come nell’Esodo ebraico: il passaggio di un popolo asservito, sì, ma soprattutto con una mentalità servile che rimpiangerà spesso “ le cipolle d’Egitto” ( Numeri 11,1-6), verso l’essere un popolo cosciente di sé, libero non tanto dagli Egiziani ma dalla propria mediocrità. Gli egiziani sono l’immagine di tutte le catene con cui viviamo e che la subcultura familiare e sociale c’impone.
Con Ulisse gli Dei, con gli ebrei il Dio d’Israele, YHWH. Immagini divine protese a spingere l’uomo a liberarsi dalla sua più grande tragedia: l’Hybris, come la chiamavano i greci, cioè la tracotanza, la stoltezza di sentirsi “padreterni”, sia come uomini di potere o come persone qualunque. Un’istanza di orgoglio per cui uno si ritiene autosufficiente, furbo, che non ha più nulla da imparare né da dei né da uomini. Un’idiota, appunto, chiuso nel suo particolare, forse anche squallido, e che si nega alla fatica di costruire la polis, la Res-publica, cioè il bene comune.
L’indifferente, il mediocre chiuso in sè stesso, l’uomo che sta sempre nel mezzo e non intraprende mai un Esodo-Odissea per crescere, liberarsi, maturare perché convinto che non ne ha bisogno oppure solo perché neanche lo capisce: è l’uomo malato di Hybris, un idiota per i Greci antichi. E’ colui che non vive mai il “passaggio” per cui buona pasqua significa solo “stammi bene negli affari tuoi, mangia e digerisci bene”; non significherà mai “ buon percorso di liberazione, di rinascita, di presa di coscienza”. Troppa fatica, troppo impegno, troppo sacrificio, troppo di tutto. Meglio stare in Egitto a fare i servi e mangiare due cipolle assicurate. Meglio restare a Trioia per fare l’eroe inutile oppure arrivare ad Itaca e rimanere nell’amplesso familiare, accucciati. Per cui “ sto bene così”.
Questa è l’Hybris che i greci denunciavano continuamente come il pericolo mortale per l’umanità e la Terra. E oggi lo sappiamo ancora meglio. E’ andare contro la massima scritta sul tempio di Apollo a Delfi: “nulla di eccessivo”(medèn agan). L’Hybris portava alla condanna, a un destino di terribile solitudine e isolamento, lontano dagli altri uomini e inviso agli dei, che diventavano, come li definisce Erodoto , «invidiosi e sconvolgenti». Come il Dio d’Israele che, attraverso Mosè durante l’Esodo, esprime tutta la sua ira verso quella parte di ebrei lamentosi per il viaggio troppo lungo, per la fatica, perché “erano meglio le cipolle da servi ma sicure in Egitto”… Non c’è nulla di peggio del “servo dentro l’animo” che non vuole farsi liberare!
Nei miti greci questi ometti periranno colpiti dalla Nemesi, nell’Esodo moriranno nel deserto, arido come sono loro. Uomini “idioti” malati di “eccesso di sè stessi”, incapaci di vivere per diventare più umani. Ulisse quando arriverà ad Itaca lotterà contro l’ultima tentazione ( dopo Circe, le Sirene, Calypso, ecc.), quella peggiore, più subdola: la casetta, come quella “in Canadà” della canzoncina che cantava Gino Latilla negli anni ’50.
La famiglia come luogo in cui seppellirsi, buona o cattiva che sia, la famiglia per stare “nel mezzo”, come il mediano della canzone di Ligabue. Senza altra prospettiva che sè stessa. Athena parlerà ancora al cuore di Ulisse ed egli proseguirà il viaggio verso una terra “ dove non si rema”, dice l’Odissea, verso un’umanità libera che bisogna costruire viaggiando dentro sè stessi, ognuno; una liberazione che non piove dall’alto. La moglie di Ulisse, Penelope, è una donna intelligente, non malata di Hybris familiare: pur soffrendo capirà e sosterrà il suo uomo per questo viaggio che non ha fine.
Messaggi duri, decisi, impegnativi che piacciono poco all’uomo medio di oggi. Tanto che abbiamo trasformato l’Esodo in una favoletta religiosa e l’Odissea in una specie di vademecum per agenzie turistiche. L’importante è che nulla ci disturbi o ci faccia pensare. L’idiozia non sopporta di essere messa in crisi. Noi ci abbiamo provato, sulla scia dei percorsi che proponiamo, domenica 17 aprile proponendo una Giornata di “ritiro” ( si, ritirarsi da un quotidiano schiacciasassi e schiaccia coscienze, almeno per qualche ora) proprio sulla “Hybris. Il dramma di tutti noi”, come avete visto dal programma di aprile.
Ci siamo ritrovati ( non in tanti come era prevedibile) presso un Istituto religioso dei Castelli Romani, che ci accoglie da anni, per cercare di nutrirci un po’ della saggezza pagana e ebraica, per leggere un po’ in noi stessi, per fare un passo verso la decisione del viaggio, del “passare” o per confermarlo e rafforzarlo se già lo abbiamo intrapreso. Sapendo che l’orrore della volgarità che ci circonda, l’abbrutimento consumista, il grigiore morale sono il prodotto della Hybris non solo di caste politiche o religiose ( che è più facile contestare) ma anche ( direi soprattutto) di uomini medi come me, noi che non contiamo nulla nelle decisioni politiche, ma contiamo molto nel dare il nostro eventuale contributo di banalità e idiozia ( e che è molto più difficile contestare).
La somma fa il totale, non dimentichiamolo mai. E la somma di tanti incapaci di “viaggio” di liberazione dalla propria Hybris, asserviti interiormente più che esteriormente, di tanti “padreterni” che non hanno nulla da imparare o domandarsi produce ciò che vediamo ( ognuno guardi nel suo “giro” di amici, colleghi, parenti o senta qualche radio privata ( la TV neanche la citiamo…) e capirà). Guardate le facce appena uscite per strada, facce con quel cipiglio da “lei non sa chi sono io…”, persone, poi, da “sotto il vestito niente” che vivono solo per mostrare la loro inutile hybris: è la subcultura stupida in cui viviamo.
E anch’io ogni mattina devo guardarmi allo specchio per vedere se l’idiozia non mi abbia divorato senza accorgermene. E’ più facile restringere la responsabilità di ciò che avviene solo a quella ( enorme, certo) di politici affaristi o di religioni invadenti, mentre la tragedia più grande è proprio l’uomo/donna comune. E forse è per questo che domenica 17 eravamo non molti: anche la nostra realtà associativa è immersa in questo mare di grigiore ( anche se qualche amico mancava per ragioni serie, veramente).
Ritorneremo a riflettere su tutto questo martedi 17 maggio: a noi preoccupa solo offrire percorsi formativi ( vedi il Diario Minimo del 4 aprile 2011), non uno scoppiettare continuo di temi nuovi tanto per sollazzarci. Grazie, invece, a chi c’era: ogni uomo e ogni donna che intraprende o conferma la sua Odissea o il suo Esodo ogni giorno è l’unica vera speranza per questo Pianeta triste e malato. Solo a loro ( e a chi fa gli stessi percorsi altrove) va l’augurio vero che non è ristretto al giorno festivo del calendario: buona pasqua, buon passaggio. Buon Esodo, buona Odissea perché in questo la più alta dignità umana.
Gruppo Laico di Ricerca
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16 novembre 2010. Senza vergogna.
HYBRIS. IL DRAMMA DI TUTTI NOI
4 aprile 2011. CONSIDERAZIONI. Il senso di un' associazione