Dalla Val di Susa alla Sicilia, dall’Altopiano a Pantelleria, dalle isole toscane al Salento il paesaggio naturale e il paesaggio storico della penisola sono sottoposti a dissipazioni, cementificazioni e sconvolgimenti artificiali che non solo hanno aumentato la loro scala e intensità negli ultimi vent’anni in modo esponenziale, ma vedono proprio ora un’accelerazione improvvisa, a dispetto di ogni crisi, come se ci fosse nell’aria un presagio di diluvio incombente e un’esplosione come di furia rabbiosa, una sinistra pulsione a rapinare tutto quello che si può, finché si è in tempo. Ho accennato a disastri di genere diverso: c’è l’opera di Stato, difesa dall’esercito contro la popolazione locale, senza che un solo argomento ragionevole, in mesi e mesi di polemica, sia stato avanzato dai suoi sostenitori bipartisan (e nonostante libri interi di argomenti contrari e relative cifre, economiche e gestionali oltre che ecologiche, siano inutilmente a disposizione del pubblico); ma ci sono anche le rapine multinazionali di quelli che vanno a trivellare a un costo ridicolo il Mediterraneo sotto Lampedusa, alla ricerca del petrolio, con i rischi enormi denunciati recentemente da Luca Zingaretti su Repubblica.
CI SONO gli scempi dei litorali, beni pubblici per eccellenza regalati dai comuni e dalle regioni ai privati e alle mafie, alcuni dei quali, ad esempio in Toscana, denunciati a più riprese da Salvatore Settis sulla stampa nazionale, come molti altri dalla Liguria alla Calabria lo sono quotidianamente da Ferruccio Sansa su questo giornale. In Toscana del resto Altiero Matteoli dopo aver imposto, a prescindere dal tracciato successivo ancora da decidere, l’enorme cantiere del pezzetto dell’autostrada “Spaccamaremma” che sta sotto casa sua (a Cecina), si avvia nel silenzio generale a metter le mani dei lottizzatori su quel gioiello del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano che era l’isola di Capraia. Nel Lazio è appena stata approvata una normativa che permetterà di costruire trentacinque cosiddetti porti turistici nell’arco di un centinaio di chilometri, come fossero distributori di sigarette.
MA LE MIGLIAIA e migliaia di stupri consumati in ogni angolo del Belpaese resteranno probabilmente ignoti ai più, come quello, criminoso, che prevede un immenso parcheggio dove erano solo erba e silenzio d’alta quota, in quel paesaggio di Marcesine di cui Meneghello scriveva – ne I piccoli maestri – che “Le forme vere della natura sono forme della coscienza”. “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni (…). Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi”. Così scriveva Albert Camus nei suoi Saggi letterari. È un tema profondo della riflessione di Camus, che viene dal suo studio della tradizione neoplatonica e dal suo amore per Simone Weil. Ma oggi la realtà fa riemergere l’idea di bellezza con la prepotente attualità delle catastrofi. Oggi e qui, in Italia, si sta consumando il più gigantesco crimine contro le anime che la nostra storia – tutta intera – ricordi. La distruzione della bellezza è un crimine senza pari, un crimine di cui in troppi siamo complici: con questa tesi, che ora cercherò di illustrare, vorrei rilanciare la riflessione aperta dal mirabile articolo di Roberto Gramiccia, “Bellezza e rivoluzione: il mondo ha bisogno di entrambe” (Liberazione, 24/07/11).
Oltre a Camus, Gramiccia cita James Hillmann, che in due opere recentemente tradotte, La politica della bellezza e La risposta estetica come azione politica, coglie a distanza di sessant’anni la stessa idea – il nesso fra bellezza e rivoluzione, postulato da entrambi. “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei” scriveva Camus. Gli fa eco Hillmann: “Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione”. Eppure quando si parla di rivoluzione non si centra a mio avviso il cuore della tragedia che stiamo vivendo, che è anche la ragione per affermare che viene commesso un crimine senza pari, o forse paragonabile a quello degli istigatori di quegli spaventosi suicidi di massa cui la storia dell’Occidente ha assistito al tempo delle rapine coloniali. La distruzione della bellezza è come un suicidio di massa delle nostre anime. E i morti non fanno una rivoluzione: né politica, né tanto meno interiore. La rivoluzione cui ci invitava Camus è un’interiore rinnovata guerra di Troia, per liberare la bellezza – Elena che ne è simbolo. “Il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci… Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all’uomo”. Guai a leggere in questa metafora un atteggiamento estetizzante. C’è veramente il cuore del pensiero greco, invece: la bellezza, cioè l’ordine del cosmo, è la forma visibile della giustizia.
CAMUS ci chiedeva di non relegare la giustizia nelle mani degli ideologi, o anche soltanto dei filosofi politici, per non parlare dei politici di mestiere, dei capipartito o dei sindacalisti. Tutte queste persone vedono solo alcuni aspetti della giustizia. Non ne vedono il fondo, cioè il valore che la giustizia è, come esatta misura del dovuto a ogni essere: il rispetto agli umani, il respiro ai viventi, la pietà alla memoria dei padri e alla loro eredità, la custodia ai beni comuni, la difesa ai paesaggi storici, che sono il nostro stesso volto, la nostra identità culturale e spirituale. “Quando la giustizia perisce, non ha più alcun valore l’esistenza degli uomini sulla terra” – scriveva Kant. Ma la bellezza è lo splendore di ciò che è prezioso, è l’essenza del valore che si fa visibile. Ecco: come possiamo sentire, percepire che la nostra esistenza non ha più valore se abbiamo ucciso in noi il sentimento della bellezza, se non soffriamo più di fronte alla sua distruzione? Per questo quella cui stiamo assistendo è la tragedia del suicidio morale di una nazione. Per questo tutti gli istigatori di questo suicidio stanno commettendo un crimine senza pari.
Roberta De Monticelli il Fatto Quotidiano 23 agosto 2011
Bellezza e rivoluzione, il mondo ha bisogno di entrambe
«La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» (Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951). «Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione» (James Hillman, La politica della bellezza, 2010). A distanza di sessanta anni due affermazioni perentorie e sovrapponibili che indicano la persistenza, anzi l’aggravarsi di un problema: la perdita della capacità di ri-conoscere la bellezza riduce l’esigenza e la capacità di indignarsi e quindi di ribellarsi e, del resto, l’allontanarsi di una prospettiva rivoluzionaria finisce per incrementare il disinteresse per il bello, nella misura in cui conferma la persistenza dello stato di cose presenti. Insomma, un circolo vizioso perverso che condanna in sostanza gli oppressi al perpetuarsi delle condizioni della loro oppressione e mette in condizione gli oppressori di godere di una crescente rendita di posizione.
Personalmente sono convinto che un senso comune becero e indifferente a qualsiasi sollecitazione estetica giochi un ruolo determinante nella patogenesi di questi fenomeni. Così come sono convinto che ad essa contribuisca fieramente il grado avanzatissimo di regressione etico-estetica di masse sconfinate di popolo, prodotto dalla ormai incontrastata egemonia di una sottocultura dominante che non conosce vergogna. Questo degrado del gusto, che precede di pari passo con il degrado di una morale pubblica sempre più agnostica o permissiva, consente e autorizza gli spettacoli più indegni. Basta sfogliare le pagine dei quotidiani o accendere la televisione per averne la conferma. Il brutto e lo scandaloso si impongono ogni giorno come i paradigmi del nostro tempo. Un tempo in cui la bellezza è scomparsa e con essa una prospettiva di liberazione possibile dall’osceno e dall’ingiusto.
Mi rendo conto di quanto queste considerazioni possano apparire astratte e scarsamente radicate nella materialità di esperienze dolorose di supersfruttamento, di precarietà, di dolore e di guerra. Eppure sono convinto che l’erosione del senso del bello, la cancellazione del suo stesso desiderio – al di fuori dei falsi modelli dominanti – rappresenti una precondizione fondamentale all’instaurarsi di quella rassegnazione di massa sulla quale si fondano le fortune dei “signori del brutto e dell’osceno”.
Camus e Hillman sono due pensatori diversi per generazione, formazione, competenze e aspirazioni ma molto prossimi nel rivendicare la centralità del bello nella vita dell’uomo moderno. Scrive Hillman in La risposta estetica come azione politica (Ariana editrice, 2010): «La risposta estetica è immediata, istintiva, animale, e precede nel tempo e nell’ontologia i gusti che rendono elaborata la risposta ai giudizi che la giustificano. Ogni repressione di quella risposta non soltanto è deleteria per la nostra natura animale, ma è anche una ferita istintuale nociva al nostro benessere, come è nociva la repressione di qualsiasi altro istinto. (…). Passeggiare accanto a un edificio maldisegnato, vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, indossare una giacca tagliata e cucita male, per non parlare del non sentire gli uccelli, del non accorgersi del crepuscolo (…) tutto questo significa ignorare il mondo. Eppure questo stato di ignoranza, questa an-estesia, è in larga misura la condizione umana attuale. Ed è sostenuta e favorita dalla nostra economia, dal nostro modo di impiegare il tempo libero, dall’uso che facciamo dei nostri mezzi di comunicazione (…) e dal nostro modo di curarci. Dal momento che questa anestesia, questo “ottundimento psichico” – come lo chiama Robert J. Lifton, che ha studiato a fondo le catastrofi collettive – è così diffusa ai giorni nostri, ho il sospetto che favorisca la passività politica del cittadino euro-americano, e quindi aiuti i poteri dominanti a proseguire, senza impedimenti, sulla loro rotta rovinosa».
James Hillman è molto più che uno psicanalista, è saggista e filosofo di fama internazionale. E’ comprensibile che la sua attenzione si appunti soprattutto sulla psiche ma è altrettanto evidente la sua convinzione che i disagi di essa vadano fatti risalire alla sfera sociale non meno che a quella individuale. Ed è proprio nella soppressione della dialettica bello-brutto che Hillman rintraccia una delle ragioni principali di questi disagi che producono senso di inadeguatezza, imbarazzo, abulia, disinteresse, cinismo, deriva morale. In una (brutta ma efficace) parola: passivizzazione. Resa. Indisponibilità a scandalizzarsi anche dinnanzi alle più insopportabili delle nefandezze morali ed estetiche.
Il brutto e l’osceno dell’ingiustizia una volta alimentavano la coscienza di classe. Oggi che questa coscienza è scomparsa non resta che il deserto. Sopravvivono delle sacche di resistenza (nella classe operaia, nel cosiddetto ceto medio riflessivo, fra gli studenti) ma rischiano di divenire sempre più marginali. E’ alla luce di simili valutazioni che si spiega la politica di tagli alla cultura, alla scuola e alla ricerca portata avanti nel nostro paese non solo per fare cassa, evidentemente, ma anche per dare un colpo definitivo ad ogni possibilità di recupero di quell’intelligenza critica (razionale, etica, estetica) che rappresenta l’unico argine rimasto allo strapotere di un pugno di oligarchi capitalisti rozzi e guerrafondai. Entro la stessa logica si muove quel sistema dell’arte divenuto ormai più una slot machine che un apparato funzionale alla selezione e alla promozione di valori autentici sotto il profilo della qualità estetica.
Albert Camus è molto più di uno splendido romanziere, è un pensatore “straniero” ad ogni dogma, alla continua ricerca di quella libertà che fu il rovello dell’Esistenzialismo. Ebbene Camus così scrive nei suoi Saggi letterari (trad. italiana 1960, Bompiani): «…la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. (…). Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi». Ed è sul filo di questo ragionamento che arriva metaforicamente a porre il problema della necessità di ri-aprire la guerra di Troia, per liberare Elena, simbolo della bellezza e poterne spiritualmente godere. Scrive Camus, ancora nei suoi Saggi: «Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all’uomo. Il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci. Il senso della storia di domani non è in certo modo quel che si crede. Esso è nella lotta fra creazione e inquisizione. Nonostante il prezzo che agli artisti costeranno le loro mani vuote, si può sperare nella loro vittoria. Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre. O pensiero meridiano, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia! Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, “anima serena come la calma dei mari”, la bellezza di Elena».
Purtroppo dopo Camus non è stato il pensiero meridiano ad imporsi ma quello debolissimo di un postmoderno che si acconcia tendenzialmente a legittimare lo stato di cose attuale, spegnere la rivolta di Camus, relativizzare all’infinito l’idea del bello, disarmare gli oppressi dalla prospettiva (terapeutica in sé) della rivoluzione. Il disinteresse per la rivoluzione nelle forme e nei modi in cui è possibile attuarla, quella cosa che Monicelli ha invocato fino all’ultimo giorno, spinge sul piano inclinato della rassegnazione, dell’individualismo, della solitudine. Alla fine di questo piano inclinato c’è il brutto assoluto con l’aggravante che chi viene a contatto con esso potrebbe non riconoscerlo. Perché senza l’idea del bello, il brutto non lo riconosci. Tutto ti sembra uguale e tu diventi un funzionario del nulla. Ecco perché alla rivoluzione serve la bellezza e alla bellezza serve la rivoluzione. Ecco perché tutte e due servono a noi.
Roberto Gramiccia Liberazione del 24/07/2011
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